lunedì 22 giugno 2009

Da "DON CAMILLO
IL VANGELO DEI SEMPLICI"
a cura di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
àncora editrice 1999



GIOVANNINO GUARESCHI

ALL' "ANONIMA"

riletto da Giacomo Biffi

DAL VANGELO DI MATTEO (5, 37) Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.


ALL' "ANONIMA"

Fioccava che Dio la mandava, ma lo Smilzo, piuttosto di usare l'ombrello, simbolo della reazione borghese e clericale, si sarebbe fatto scannare. D'altra parte, se si fosse messo il cappello, come sarebbe entrato? Tenendoselo in testa o cavandoselo? "Entrare in casa di un nemico del popolo tenendo il cappello in testa è, sì, un atto fiero, adeguato alla dignità del popolo : però è provocatorio. Entrare in casa di un nemico del popolo togliendosi il cappello non è un atto provocatorio, però è servile e umiliante : quindi dannoso alla causa del popolo. L'unico modo per conservare la propria dignità senza, per questo, assumere atteggiamenti provocatori è quello di andare in casa dei nemici del popolo senza mettersi il cappello. Si serve la causa del popolo anche prendendo un raffreddore. Ogni azione rivoluzionaria comporta dei sacrifici". Così pensò lo Smilzo e perciò, quando entrò in canonica, era fiero senza essere provocatorio : però aveva la testa piena di neve.

"Ciao, Gennaio" gli disse don Camillo. "Nevica anche sul partito?" "Può darsi" rispose con voce ferma lo Smilzo. "Però presto verrà il sole anche per il Partito". "C'è scritto sul Solitario Piacentino?" si informò don Camillo. Lo Smilzo assunse un'aria notevolmente annoiata. "Dice il capo che, se nel Piano Marshall non esiste nessuna clausola in contrario, vorrebbe parlarvi". "Bene" rispose don Camillo. "Digli pure che io non ho cambiato casa : abito sempre qui". Lo Smilzo ebbe un risolino, di quelli tutti da una parte e col singhiozzino sotterraneo. "Fin che dura!...A ogni modo, siccome si tratta di cose strettamente personali e siccome voi non volete andare da lui, mentre la sua dignità non gli permette di venire qui a riverirvi, il capo ha organizzato un incontro in campo neutro. Vi aspetta all' "Anonima" ".

L' "Anonima" era un gran baraccone fuori dal paese : un tempo era stato una fabbrica di salsa di pomodoro. Roba impiantata nel 1908 e che aveva funzionato per una decina d'anni. E siccome sul frontale c'era scritto "Società Anonima Conserve Alimentari" la gente trovò che l' "Anonima" rendeva l'idea meglio di tutto il resto e con tal nome battezzò la baracca. Ora la fabbrica, abbandonata da anni e annorum, funzionava semplicemente da ricordo di giovinezza per i più vecchi e da "centrale giochi" per i più giovani.

Don Camillo infilò gli stivaloni e andò a pestar neve e lo Smilzo lo seguì, ma, duecento metri prima di arrivare, si fermò e tornò indietro. "Così nero in mezzo alla neve fate un bell'effetto" osservò lo Smilzo quando fu lontano una ventina di metri. "Stareste proprio bene in Siberia. Vi terremo presente reverendo". "Tu invece staresti bene all'Inferno" borbottò don Camillo.

Peppone era ad aspettarlo sotto una tettoia e aveva acceso un bel fuoco e si stava scaldando, seduto su una cassa sgangherata. Don Camillo spinse col piede una cassa vicino al fuoco e si mise a sedere di fronte a Peppone. Rimasero lì un bel po' ad arrostirsi le mani in silenzio. Poi Peppone levò la testa e disse con voce aggressiva : "Qui bisogna venire a una conclusione. E' una storia che non può funzionare". "Quale storia?" si informò don Camillo. "E quale deve essere? Quella della Messa!" spiegò sgarbato Peppone. "Ecco : i compagni hanno apprezzato molto il vostro gesto della Vigilia di Natale. Il fatto del clero che esce dal suo isolamento e va a bussare alla porta del popolo ha un valore. Sta a significare che Dio capisce finalmente l'importanza del popolo e allora va lui a cercare il popolo. Dio fa un'autocritica, riconosce le sue deviazioni ideologiche e il popolo allora apre la porta a Dio e gli perdona. Dio insomma diventa veramente democratico : non più il popolo che deve andare alla Casa di Dio, ma Dio che va alla Casa del Popolo".

Don Camillo tirò su uno stecco dal fuoco e si accese il sigaro. "Siete una manica di porci" disse don Camillo con calma. "Approfittate di uno stupido come il sottoscritto, che in un momento di debolezza ha commesso una fesseria, per gonfiarvi di boria e bestemmiare il nome di Dio". Peppone lo guardò perplesso. "Non avete commesso nessuna fesseria, reverendo. C'è scritto sui vostri libri che il buon pastore lascia il gregge nell'ovile e poi va in giro di notte a cercare la pecorella smarrita". Don Camillo scosse il capo. "Sì, ma non c'è scritto che poi la pecorella, per ricompensarlo, gli dice le eresie che hai detto tu. Voi non siete delle pecorelle : siete una mandria di bufali. Io non sono venuto a dire la Messa alla vostra Casa del Popolo perchè c'era il Padreterno che vi cercava. Io sono venuto per aiutare voi a cercare Dio, per aiutarvi a ritrovarlo. Dio non ha bisogno di voi, siete voi che avete bisogno di Dio". "Io non avevo intenzione di offendervi" obiettò Peppone. "E neanche mi hai offeso" replicò duramente don Camillo. "Però hai fatto ben di peggio : hai offeso Dio!". Peppone fece un gesto d'impazienza. "Reverendo" esclamò "non ricominciamo la solita storia di buttare in politica tutto! Lasciamo stare la tattica del vittimismo! Non facciamo ragionamenti abulici!".

Don Camillo guardò preoccupato Peppone. "Cosa intendi per "ragionamenti abulici"?" domandò. Peppone si strinse nelle spalle. "Cosa intendo per ragionamenti abulici? E cosa volete che voglia dire? Ragionamenti abulici! Ragionamenti così, insomma!" concluse agitando le braccia. Don Camillo scosse il capo. "Se intendi dire una cosa di quel genere, allora "abulico" è un aggettivo che non va bene. "Abulico" significa..." Peppone fece un'alzata di spalle e lo interruppe : "Reverendo, l'importante è che ci si capisca! Non è il caso di fare delle discussioni di letteratura. Tanto, la letteratura è una porca faccenda che serve soltanto per imbrogliare le idee, perchè va a finire che uno, invece di dire quello che vorrebbe dire lui, dice quello che vuole la grammatica e l'analisi logica. E, a un bel momento, non ci capisce più dentro niente neanche quello che parla. Se io, porcaccio mondo, nei comizi potessi fare dei discorsi in dialetto, me la sbrigherei in metà tempo e difficilmente direi delle stupidaggini. Perchè, quando uno fa un discorso, prima di tutto bisogna che capisca lui quello che dice. Se io parlo come mi ha fatto mia madre capisco tutto quello che dico. Perchè, caro reverendo, mia madre mi ha fatto in dialetto, mica in italiano. Ma così, vigliacco mondo, va a finire che, dopo aver fatto un discorso, uno deve farsi spiegare da un altro quello che ha detto!".

"Adesso parli giusto" osservò don Camillo. "Lo so. E tutti parlerebero giusto se non ci fosse questa porca letteratura che complica sempre di più le cose. Perchè, se ci sono cento cose, ci devono essere duemila modi per dire queste cento cose? Ci sono i nomi scientifici, e va bene : quelli servono per gli specializzati. Ma gli altri debbono usare soltanto le parole che capiscono. Si fa un comitato di galantuomini di tutte le categorie, si piglia il vocabolario, si cancellano tutte le parole inutili e se uno, dopo, usa in pubblico qualcuna di queste parole proibite lo si prende e lo si schiaffa dentro come quelli che tentano di spacciare moneta falsa. I signori poeti si lamenteranno perchè non trovano più la rima? Noi gli risponderemo che facciano le poesie senza rima. Un povero diavolo ha almeno il diritto di sapere quello che dice. Perchè io ho parlato poco fa di discorsi abulici? Perchè io, questa sporcaccionata di parola, l'ho letta o sentita da qualche parte e, siccome si presenta bene, mi è piaciuta e mi è rimasta appiccicata al cervello". "Capisco, ma perchè l'hai usata se non la conoscevi che di vista?" "Non l'ho usata io! E' stata lei che ha usato me! Io volevo dirvi : "Non diciamo delle vaccate, reverendo!", e mi pareva, così, dall'aspetto, che "abulico" significasse sempre roba bovina ma detta in modo più pulito, più distinto. Più letterario insomma!".

Peppone era triste e sospirò : "Forse era giusto se dicevo "discorsi bucolici" invece che "discorsi abulici" ". Don Camillo scosse il capo : "In "bucolico" il bestiame c'entra molto di più che in "abulico". Però, nel senso di "discorsi a vacca" o "vaccate", il "bucolico" non funziona. Dai retta a me : anche quando parli nei comizi devi dire soltanto le parole che sai". "Il guaio è che ne so poche". "Anche se tu ne sapessi metà, basterebbero. Ha bisogno di molte parole chi deve mascherare la sua mancanza di idee o chi deve mascherare le sue intenzioni. Credi tu che Gesù Cristo adoperasse più parole di quante ne puoi adoperare tu? Eppure riusciva a farsi capire da tutti e abbastanza bene, mi pare".

Peppone si strinse nelle spalle e sospirò : "Altri tempi, reverendo. Altro tipo di propaganda!". Allora don Camillo cavò dal fuoco un mezzo travicello infuocato e lo brandì minaccioso. "O la pianti di bestemmiare, o ti vernicio a fuoco il muso. Se mi hai fatto venir qui per sentire le tue bestemmie, hai sbagliato indirizzo. Si può sapere una buona volta che cosa vuoi da me?". Peppone esitò un poco poi si rinfrancò : "Reverendo, qui bisogna sistemare la faccenda : quello che è detto è detto e poi ci sono delle ragioni speciali e indietro non si torna. Noi in chiesa non ci possiamo venire più. D'altra parte siamo gente battezzata. Quindi..." "Quindi?" "Ieri sera abbiamo fatto una seduta straordinaria. Non ne mancava neanche uno e abbiamo deciso di proporvi la carica di cappellano della sezione".

"Cioè?" "Cioè voi, la domenica, dovreste venire a fare una Messa speciale per noi. Diciamo una Messa di Partito".

Don Camillo lo guardò. "Io non faccio il barbiere" rispose. "Sono i barbieri che fanno il servizio a domicilio. Alla vostra Casa del Popolo io non ci metterò più piede vita natural durante".

"Non alla Casa del Popolo. Non si potrebbe neanche perchè ci sarebbero delle interferenze politiche. Voi verreste qui : sotto quelle tre tettoie ci stiamo tutti. Qui siamo in campo neutrale : la distanza da qui alla Casa del Popolo è uguale alla distanza da qui alla chiesa. Dio è dappertutto e quindi Lui resta dov'è e nessuno gli dà dei fastidi : ci muoviamo noi e ci incontriamo a metà strada. Gli uomini si muovono e il Padreterno sta fermo. Insomma : se la montagna non vuole andare a Maometto e Maometto non vuole andare alla montagna, Maometto e la montagna vanno tutt'e due all' "Anonima" e buonanotte suonatori".

Don Camillo si alzò. "Ci penserò" disse andandosene.

Peppone rimase solo vicino al fuoco che ardeva sotto la tettoia della vecchia fabbrica abbandonata. "Se il Padreterno non è un fazioso" pensò " deve capire che queste storie non le facciamo per lui". Poi pensò alla faccenda dell' "abulico" e sospirò. "Peccato dover rinunciare a una così bella parola. Quella, per esempio, la si potrebbe mantenere nell'elenco delle parole permesse".




PEPPONE IL TEOLOGO
di Giacomo Biffi



L'epopea di Mondo piccolo - un piccolo mondo che ci viene offerto primariamente come cifra e quasi miniatura del più grande conflitto di idee, di mentalità, di interessi che ha segnato e dominato gran parte del secolo XX, ma poi diventa anche raffigurazione sorridente dell'intera commedia esistenziale - trova qui uno dei suoi più affascinanti capitoli.
Ma a lettura finita c'è spazio, voglia e, si direbbe, necessità di qualche considerazione approfondita. Lo consente e quasi lo esige lo spessore di questa prosa; uno spessore che la levità della narrazione non riesce a celare, se non forse ai fruitori più disattenti.

In questo racconto viene affrontato esplicitamente il problema - serio e rilevante per Guareschi - del rapporto tra il servizio alla verità e la tirannia delle esigenze letterarie.

Peppone l'avverte come qualcosa di intrigante e addirittura di angoscioso. "La letteratura (egli dice) è una porca faccenda che serve soltanto per imbrogliare le idee, perchè va a finire che uno, invece di dire quello che vorrebbe lui, dice quello che vuole la grammatica e l'analisi logica"

"Adesso parli giusto" osservò don Camillo (che qui è senza dubbio portavoce dell'autore).

"Ha bisogno di molte parole (dice più avanti don Camillo) chi deve mascherare la sua mancanza di idee o chi deve mascherare le sue intenzioni".

La proposta di Peppone è di cancellare dal vocabolario tutte le parole che sono in più : ce ne sono troppe rispetto al numero delle cose da dire. Al momento egli non ci pensa, ma in fondo il suo è lo stesso parere di Gesù Cristo che ha detto :"Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5, 37).

Bisogna riconoscere che dal tempo di Guareschi nell'uso del linguaggio c'è stato perfino un peggioramento. Sicchè oggi l'inizio obbligato della nostra redenzione sociale sarebbe quello di cominciare a chiamare le cose soltanto con il loro nome, senza camuffamenti e senza quelle inutili prolissità che spesso finiscono coll'essere messe a servizio dell'ambiguità e della confusione.

E' per esempio strano (ma non tanto) che la famosa legge 194 - con la quale si è legalizzato e pubblicamente finanziato l'aborto - si intitoli con bella ipocrisia Legge per la tutela della maternità o che ci si dimentichi che, per indicare la convivenza more uxorio di due persone non sposate, la lingua italiana abbia già la parola "concubinato", senza che ci sia bisogno di perifrasi come "unioni di fatto" o "unioni affettive".

"Se io parlo come mi ha fatto mia madre capisco tutto quello che dico" esclama nostalgicamente lo schietto capopopolo emiliano, che si vede invece costretto a misurarsi e a compromettersi con termini che gli sono estranei e incomprensibili, per nobilitare letterariamente il suo dire. E deve essere per lui un disagio non piccolo il dover ascoltare e ripetere nell'indottrinamento di partito vocaboli come "alienazione", "plusvalore", "materialismo dialettico", in omaggio a Carlo Marx.
"Credi tu che Gesù Cristo adoperasse più parole di quante ne puoi adoperare tu?" gli fa notare l'implacabile curato. Peppone tenta di schermirsi :"Altri tempi, altro tipo di propaganda"; ma in realtà sa anche lui che qui don Camillo ci ha preso. Perchè la lamentela gli viene proprio dal ricordo dello stile usato dal Figlio di Dio, il quale sapeva introdurre nel suo dire le cose più semplici e comuni, e così gli riusciva di far capire le grandi e ineffabili verità del Padre che ci ama e del Regno che ci aspetta anche al suo pubblico di pescatori, di pastori, di contadini.
Un'attenzione a parte merita la "teologia di Peppone". Essa suscita le ovvie critiche del suo antagonista, che in seminario aveva studiato sui testi classici e approvati; eppure io vorrei tentare di difenderla.
Certo, dire che "Dio fa autocritica, riconosce le sue deviazioni (...) e diventa veramente democratico" a prima vista scandalizza e fa gridare alla bestemmia. Ma questo linguaggio racchiude qualche valore, che cercherò di mettere in luce facendo ricorso a una "autorità" di tutto rispetto.
Il cardinal Newman distingue - ed è uno dei più originali dei suoi non sempre facili pensieri - l' "assenso nozionale" dall' "assenso reale": il primo termina ai concetti e non li oltrepassa, il secondo arriva alla realtà (e qualifica il vero atto di fede). Se io mi limito ad asserire che Dio è l'essere perfettissimo, l'eterno, il santo, l'onnisciente, eccetera, mi esprimo in maniera ineccepibile; ma il mio rischia di essere solo un "assenso nozionale", e non è detto che sia salvifico. Peppone invece, a ben guardare, parla di Dio come parla dei compagni coi quali ha quotidianamente a che fare; vale a dire, prende sul serio Dio come una persona viva e concreta. Il suo è un "assenso reale", e può essere l'avvio di una relazione religiosa trasformante.
E si capisce allora come egli possa chiedere a questo Dio - proprio come lo chiederebbe a un suo conoscente o a un suo amico - di favorire l'incontro delle parti, collocandosi tra loro (topograficamente, senza compromettere nessuna verità) a mezza strada. Così - rileva il teologo Peppone - "gli uomini si muovono e il Padreterno sta fermo".
Non bisogna dimenticare che si tratta soltanto di una bega tra la parrocchia e la sezione del partito. Però vi è sottintesa una questione annosa e addirittura secolare, che affligge molti italiani : la questione di mettere d'accordo il loro antico cuore cattolico (che sa di aver bisogno non solo della predicazione del Vangelo, ma anche dei sacramenti e degli altri riti) e il loro antico animo anticlericale (per il quale sono convinti che ai preti non bisogna mai darla vinta del tutto).
Perciò si può sperare che in questo caso Dio non si rifiuti equanimemente di dare una mano. "Se il Padreterno non è fazioso" pensa Peppone utilizzando ancora una volta l' "assenso reale" "deve capire che queste storie non le facciamo per lui".
Vorrei aggiungere un'ultima riflessione sul "dialogo" : un tema vivissimo in questi decenni, tanto che sembra essere percepito dall'odierna cristianità quasi come un dogma di fede.
Ma non è un dogma di fede. Piuttosto è una ovvietà : è evidente che bisogna dialogare sempre con tutti, se si vuole evangelizzare efficacemente.
Quelli di Guareschi sono senza dubbio personaggi "preconciliari", ma nessuno potrebbe affermare che non ci sia dialogo fra don Camillo e Peppone. Il dialogo è anzi la sostanza stessa della loro leggendaria vicenda. Ogni giorno essi si incontrano, si confrontano, misurano con straordinaria libertà di spirito le loro rispettive convinzioni.
Ma don Camillo - che non solo è un irriducibile annunciatore del Vangelo ma anche un leale e appassionato rappresentante della Chiesa - non si sogna neppure di pensare che per dialogare efficacemente bisogna, come oggi si sente dire, "guardare a ciò che ci unisce e non a ciò che ci divide". Egli sembra ben persuaso che sia vero il contrario, almeno quando quello che ci differenzia e ci contrappone non è motivato e connotato dal capriccio e dal puntiglio, ma dall'amore per la verità e la giustizia. Diversamente, non ci sarebbe più nemmeno dialogo autentico e pastoralmente proficuo; ci sarebbe solo una cortese chiacchiera da salotto.
Appunto per questo il dialogo come è tratteggiato da Guareschi appare evangelicamente giusto e fruttuoso. La salvezza dei fratelli non verrà dalla capacità degli uomini di Chiesa di schivare con mondana eleganza ciò che può inquietare e pungere una pace delle coscienze obiettivamente infondata e non generata dalla verità; potrà venire solo da una limpida e coraggiosa testimonianza resa, per amore del prossimo, alla luce di Dio.




giovedì 18 giugno 2009

E' un'alleanza immorale

Mons. Negri boccia l’accordo dell’UDC con la sinistra di Claudio Monti,da “La Voce di Romagna” (16/06/09)Gli apparentamenti dell’UDC col centrosinistra il quotidiano della CEI Avvenire li definisce “eclatanti”. Fra quelli “destinati a lasciare il segno oltre i livelli locali”, dopo il comune di Bari e la provincia di Torino, il quotidiano cattolico ha citato “la provincia di Rieti e quella di Rimini”. In Vaticano e nella Conferenza Episcopale Italiana non è passata inosservata la decisione dello scudo crociato di andare in soccorso delle alleanze a guida PD in alcune città dove si gioca una partita storica per cambiare equilibri ed egemonie che fanno capo alla sinistra. Il ribaltone “pro Vitali” targato Casini-Errani non è passato inosservato nemmeno nel mondo cattolico riminese e nella vicina Repubblica di San Marino, dove Casini e alcuni dei suoi uomini più rappresentativi a livello nazionale hanno frequentazioni assidue e amichevoli. Due soprattutto – Rocco Buttiglione, presidente dell’UDC, e l’onorevole Luca Volonté – hanno parecchie amicizie in zona, dal Meeting alla Fondazione Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa, e in particolare con mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino e Montefeltro.“Non nascondo un certo disagio per le parole di Casini in tema di apparentamenti al secondo turno elettorale. Credo che anche le situazioni particolari debbano essere viste in un’ottica generale e alla luce dei principi fondativi che ispirano l’azione di una forza politica. Non mi pare né sincera né profonda la giustificazione che scelte come le alleanze per i ballottaggi vengano lasciate alle responsabilità locali”, spiega il vescovo di San Marino (nella foto). “Nessuno che viva in queste zone può non rendersi conto dell’importante momento che una provincia come Rimini ha davanti a sé, e per i cattolici si tratta della possibilità di incidere in una realtà che da 60 anni vede una gestione monocratica del potere. E men che meno non possono non comprenderlo i dirigenti nazionali. Affrontare una scadenza come questa, che ha certamente uno spessore nazionale, nell’ottica dei piccoli accordi locali, che rispondono a logiche non certo di principio, mi sembra una cosa avvilente”, aggiunge mons. Negri. Che spiega di avere a cuore la scadenza elettorale della Provincia di Rimini, un territorio che “a breve si arricchirà degli abitanti dei comuni dell’Alta Valmarecchia, verso i quali è viva e forte la mia sollecitudine pastorale di vescovo. Seguo con interesse e partecipazione il fatto che la provincia di Rimini si arricchisca di uomini e donne che provengono dalla mia Diocesi e che portano con loro un complesso di valori e di problemi che attendono risposte, e che personalmente ho sempre indicato come motivazioni che rendevano ragionevole pensare ad un cambio di provincia”.Mons. Negri ricorda quanto ha scritto a fine maggio nel messaggio in occasione delle elezioni amministrative e di quelle europee: “I problemi reali devono essere illuminati dai principi, non i principi essere di fatto estromessi dal ‘piccolo cabotaggio’ istituzionale ed amministrativo”. Negri aveva pure detto senza mezzi termini che “debbono essere privilegiate formazioni socio-politiche e singoli candidati che garantiscano una fedeltà viva ed operativa ai principi fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa”. Ora il vescovo di San Marino aggiunge: “L’UDC ha lodevolmente impostato la sua campagna elettorale per le elezioni europee sui grandi principi che riguardano la persona, la famiglia, il diritto all’educazione e la difesa della vita, portando il dibattito politico a un livello superiore a quello di altri partiti. Mi chiedo come l’UDC potrà, alla luce di questi principi, condividere tutti i giorni le amministrazioni locali con chi manifesta una concezione della vita radicalmente diversa. Il vescovo non può non ricordare a tutti che una gestione senza principi è una gestione immorale”.