sabato 15 ottobre 2011

CULTURA: convegno a Roma su Lepanto a 440 anni dalla battaglia.

Il 7 ottobre 1571 l’armata cristiana guidata da don Giovanni d’Austria affrontava e vinceva la flotta turca nelle acque di Lepanto, avviando un declino dell’impero ottomano che sarebbe culminato, oltre un secolo più tardi con le vittorie cristiane a Vienna (1683) e a Belgrado (1717). Al giorno d’oggi, a fronte di un Islam sempre più bellicoso e desideroso di conquista, è opportuno riflettere sugli eventi e le circostanze che, nella seconda metà del XVI secolo, portarono ad un epocale scontro di civiltà, risoltosi con la vittoria cristiana.
Il tema è stato affrontato lo scorso 7 ottobre, durante il convegno Lepanto a 440 anni dalla battaglia, tenutosi a Roma, presso il Residence Ripetta e promosso dalla Fondazione Lepanto e dall’Istituto Nazionale per la Guardia d’onore alle Reali Tombe del Pantheon.
Come spiegato nell’introduzione dal capitano di vascello Ugo d’Atri, presidente dell’Istituto Nazionale per la Guardia d’onore alle Reali Tombe del Pantheon, la battaglia di Lepanto è storicamente fondamentale poiché segna la sconfitta di un esercito ottomano che, dopo la conquista di Cipro (1570), era ritenuto invincibile, in un’epoca segnata da forti divisioni geopolitiche nello scacchiere mediterraneo.
Secondo la storica ed archeologa Maria Grazia Siliato, Lepanto è in primo luogo «una categoria dello spirito», pur essendo stata una vittoria ottenuta al caro prezzo del sangue di migliaia di cristiani europei, vittime della crudele barbarie dei turchi. Dopo oltre un secolo di minaccia ottomana «il Mediterraneo tornava finalmente pacifico e il prezzo della pace, per quanto alto esso sia, sarà sempre più basso del prezzo della guerra».
La battaglia di Lepanto fornisce anche uno spunto per riflettere sul concetto di “guerra giusta”. Come ha osservato Massimo de Leonardis, professore di Storia delle relazioni internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il Catechismo della Chiesa Cattolica (2321) riconosce come legittima non solo la guerra difensiva ma anche l’attacco, nel caso in cui si tratti di preservare la nostra civiltà. «La Dottrina Sociale respinge il pacifismo – ha detto de Leonardis – che è quasi sempre una capitolazione di fronte all’iniquità.
La Chiesa è, semmai, pacificatrice. Un bellum iustum, come ricordò nel 2004 il cardinale Ratzinger, fu la Seconda Guerra Mondiale. La stessa Gaudium et Spes sottolinea che il pericolo della guerra è ineliminabile e incomberà sull’umanità fino alla venuta di Cristo». Aneddoti e peculiarità sulla battaglia di Lepanto sono stati raccontati dall’ammiraglio Ezio Ferrante, secondo il quale una sconfitta avrebbe provocato il crollo della Repubblica di Venezia, quindi il dilagare dei turchi verso l’Italia, verso il Tirreno e verso l’Europa occidentale. Invece, per grazia di Dio, arrivò una vittoria che «non fu tanto un trionfo della croce sulla mezzaluna, quanto una vittoria della libertà, che 440 anni dopo è giusto ricordare».
Il professor Roberto de Mattei, presidente della Fondazione Lepanto, ha collegato la battaglia di Lepanto con la nuova fondamentale vittoria sui turchi, avvenuta 112 anni dopo: quella di Vienna del 1683. Così come, un secolo prima, la Cristianità e l’occidente furono salvati dalla fede e dall’eroismo di don Giovanni d’Austria e di san Pio V, alla fine del XVII secolo brillarono due figure omologhe, quella di papa Innocenzo XI e quella del genio militare di Eugenio di Savoia. Quelle di Vienna, Budapest (1686) e Belgrado (1717) sarebbero state le ultime vittorie della Cristianità sull’Islam, prima degli sconvolgimenti secolaristi della rivoluzione francese.
Nonostante la scristianizzazione che da due secoli logora il vecchio continente, che di fatto oggi, indebolendo moralmente la nostra civiltà, la rende nuovamente preda della conquista islamica, «lo Spirito di Lepanto non è mai morto ed è lo spirito della Chiesa Militante». (L. M.)


martedì 5 ottobre 2010

QUEI CATTOLICI PRO-BONINO - di Mario Palmaro

Un’inchiesta svela la confusione che regna tra tanti cattolici italiani. Non pochi che si dicono “impegnati” voteranno la donna-simbolo dell’abortismo. Il grido di allarme di monsignor Negri: è il segno di una profonda crisi dottrinale.[Da «il Timone», n. 91, Marzo 2010] Chi l’avrebbe mai detto? Emma Bonino, leader storica dei radicali italiani, che viene sostenuta da una fetta del mondo cattolico “impegnato”. Non è fantascienza, ma cronaca di queste settimane: per la carica di governatore della Regione Lazio, Bonino sarà la candidata del Partito democratico. E potrà contare sul voto di alcuni politici di estrazione democristiana, come Franco Marini e Maria Pia Garavaglia, ma anche di non pochi esponenti della “base” cattolica, che le hanno pubblicamente accordato il loro appoggio. Bonino for PresidentLo ha rivelato il Foglio, che è andato a tastare il polso alle parrocchie del Lazio per capire quale aria tirasse per la “pasionaria” abortista. Dall’inchiesta emerge un quadro inatteso, dominato da attestati di stima e da dichiarazioni di voto per la Bonino. A Viterbo, la responsabile della mensa della Caritas dichiara di «avere molta fiducia in Emma Bonino, una persona onesta». «Certo — prosegue la signora — c’è il problema delle posizioni estreme sul divorzio e sull’aborto, ma bisogna avere rispetto per le opinioni altrui è superare le divisioni». Un avvocato della curia dice di sentirsi «tutelato dalla Bonino sul piano delle garanzie costituzionali e dei diritti». «E poi — aggiunge — è una persona seria”. Il direttore di un quotidiano locale, che si definisce «cattolico figlio di don Milani», dice che voterà Bonino «per la sua attenzione agli ultimi». A Latina un sacerdote, responsabile della pastorale sanitaria, spiega che «Emma Bonino è agli antipodi da me, ma è una candidata di mediazione, e sulla gestione del bilancio mi ispira fiducia». Un’attivista del movimento dei Focolarini spiega che «c’è la consapevolezza della integrità morale della Bonino, che ha mostrato coerenza nell’attenzione agli ultimi». Sempre a Latina I’ex presidente di un consultorio diocesano parla di «un nome di prestigio come quello di Emma Bonino». Ovviamente il Foglio raccoglie anche qualche testimonianza di cattolici che criticano la candidatura della radicale. Ma, nel complesso, la sensazione è una sorprendente onda favorevole che si solleva nella pancia del cattolicesimo “impegnato”.
Chi è Emma?Emma Bonino è una storica esponente della cultura radicale che non rinnega nulla delle famose sedicenti “battaglie di civiltà”, combattute con una straordinaria coerenza tra teoria e prassi. Lo testimoniano alcune impressionanti fotografie in bianco e nero ripubblicate di recente dal quotidiano Libero, foto che mostrano Emma Bonino impegnata a provocare l’aborto a una donna con l’ausilio di una pompa per biciclette. Scene molto crude che risalgono agli anni Settanta, quando i radicali si davano da fare per praticare I’aborto, allora vietato dalla legge. Emma Bonino oggi prosegue con infaticabile impegno la sua militanza nell’accampamento radicale, vera e propria “chiesa” anticattolica. I radicali stanno al cattolicesimo così come l’antimateria sta alla materia. Il loro impegno è infaticabile, costante, inesauribile, generoso, astuto, intelligente. Al punto che il fenomeno radicale sembra possedere delle connotazioni preternaturali. I radicali sono dei praticanti rigorosi, professano un anticattolicesimo ortodosso, argomentato, dottrinale. Si occupano di tutto ciò che sta a cuore al Papa e alla Chiesa, tenendo immancabilmente una posizione speculare. Il loro obiettivo è cambiare le leggi, ma soprattutto capovolgere la mentalità dell’opinione pubblica, disseminare l’errore come il loglio nel campo di grano, coltivandolo con cura maniacale, affinché alla fine il loglio sostituisca il grano senza che il contadino nemmeno se ne accorga. In questi ultimi quarant’anni i radicali sono stati degli straordinari vincitori. Spettacolari perdenti sul piano del loro consenso elettorale — sempre insignificante — ma vincitori nell’aver trasformato poco alla volta il quadro politico in una diffusa galleggiante macchia di pensiero radicale. Nel Lazio hanno piazzato con straordinario tempismo la Bonino, imponendola a un Partito democratico che, a dispetto di certi sommessi rigurgiti teodem, non è affatto estraneo alla ideologia radicale, ma ne rappresenta invece l’incarnazione di massa. La verità è tragicamente questa: che i marxisti, morto Marx, Mao e l’Urss, si son fatti radicali. Trovandosi così gomito a gomito con la tradizione liberal libertaria che tanto avevano aborrito. Chi sono i cattolici?Non basta: i cattolici che hanno aderito al progetto politico progressista, irretiti soprattutto dalla famosa “opzione preferenziale per i poveri”, ora si ritrovano a “digerire” la candidatura di un personaggio che è, obiettivamente, completamente estraneo all’identità cattolica. A meno che questa identità non sia, essa stessa, una vaso di creta che può essere in ogni momento riplasmato a vantaggio delle alchimie politiche. Occorre ammettere che il pensiero radicale è penetrato all’interno dell’accampamento cattolico, il che spiega il carosello di giudizi favorevoli a Emma Bonino raccolti dalla voce di persone impegnate in curie e parrocchie. Evidentemente, da alcuni decenni il mondo cattolico è in debito di dottrina. E non solo nella sua “sinistra”. Il cattolicesimo spesso è stato trasformato o in grigia burocrazia formale inquadrata nel piccolo cabotaggio clericale; oppure, in alternativa, è stato ridotto a un fatto esperienziale, con forti connotazioni emotive. Nell’uno come nell’altro caso, la dottrina è stata, semplicemente, dimenticata. Il risultato è una popolazione cattolica spesso animata dalle migliori intenzioni, ma che ha convinzioni, principi, criteri di riferimento totalmente alternativi e contraddittori. Il giudizio della ChiesaQueste elezioni regionali offrono altri esempi di candidature “imbarazzanti” per il mondo cattolico, a cominciare dal Piemonte, dove il Partito democratico rinnova la sua fiducia a Mercedes Bresso, personalità da sempre in simbiosi con la cultura radicale e anti-vita, e che nel 2009 si dichiarò disponibile ad aiutare Beppino Englaro nel suo “progetto”. Ebbene, in quella regione la Bresso sarà sostenuta dall’Udc, il “partito cattolico” di Pierferdinando Casini e di Rocco Buttiglione. In un simile scenario, serpeggia un certo disorientamento, e in molti si chiedono: ma un cattolico può votare veramente qualunque candidato?
C’è una sola risposta esatta: no.
L’insegnamento della Chiesa è chiarissimo: ci sono principi non negoziabili — essenzialmente in materia di vita umana, famiglia, matrimonio, educazione — sui quali non è possibile scendere a compromessi. Un politico favorevole ad aborto, eutanasia, “matrimoni” gay, non va votato, se non si vuole diventare suoi complici sul piano morale. Ma è altrettanto vero che tale consolidata dottrina è troppo spesso taciuta o ignorata. E nel silenzio colpevole di chi dovrebbe parlare, prosperano incredibili giudizi come quelli raccolti dal Foglio.Ricorda«Perché di fronte a una candidatura dichiaratamente contro la Chiesa una parte del mondo cattolico si mostra privo di atteggiamento critico? È la domanda che mi sono posto dopo aver letto l’inchiesta del Foglio a Viterbo che ha evidenziato come per molti cattolici non fa difficoltà la candidatura della Bonino nel Lazio. Se facessimo la medesima inchiesta in altre regioni, vorrei dire in tutte le regioni d’Italia, il risultato sarebbe lo stesso di Viterbo. Perché il dato è uno e chiede d’essere guardato: stiamo crescendo generazioni assolutamente incapaci di giudizio critico sulle cose. (…) A volte sembra che il dialogo che impostiamo con chi non crede altro non sia che una resa senza condizioni. Nel nome del dialogo ci dimentichiamo chi siamo. E dimenticandoci chi siamo sono sempre gli altri ad avere ragione, ad avere la meglio».(Mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro)© il Timonewww.iltimone.org




Links Correlati
· Inoltre Radicalismo· News by Leggendanera
Articolo più letto relativo a Radicalismo:Anticattolici? No, antivaticani

mercoledì 4 agosto 2010

GINO IL PIO di Alessandro Gnocchi

Campione della bicicletta, Bartali fu anche un simbolo dell’Italia cattolica del dopoguerra.
Un fratello morto a vent’anni correndo in bicicletta.
I Tour de France e i Giri d’Italia, l’ingresso nell’ordine carmelitano come terziario, la famiglia, la guerra e la ricostruzione.
La sua vita sembra un racconto omerico, all’ombra della fede.Nel 1935, per chi amava il ciclismo, dire Olmo o Guerra era come evocare gli eroi di Omero. Eppure, nella Milano-Sanremo di quell’anno, un pivello di ventun’anni li aveva mollati sul Berta e viaggiava da solo in testa con due minuti di vantaggio. Allora, Emilio Colombo, della “Gazzetta dello Sport”, fece accelerare la sua macchina, raggiunse il ragazzino e lo intervistò in corsa. In realtà, non gli importava un fico secco di Gino Bartali, che stava andando a vincere il mondiale di primavera. Quel gran marpione voleva solo che il giovanotto toscano perdesse tempo, concentrazione e, con quelli, la Milano-Sanremo: altrimenti, addio tiratura per la “Gazzetta”.
Al traguardo, Bartali arrivò quarto dietro Olmo, Guerra e Cipriani. Anche troppo per un gregario.
Nel 1997, sessantadue anni dopo, Gino Bartali ne aveva fatte tante da non essere semplicemente Gino Bartali.
Da tempo era divenuto “Bartali” tra virgolette, quello della canzone di Paolo Conte: polaroid di un’Italia in bianco e nero che molti cominciano a rimpiangere. Era il “Bartali” di un Italia in cui, alla morosa che faceva i capricci per andare al cinema, un uomo era nel suo buon diritto spiegandole il senso della vita come recita la ballata contiana:
«E tramonta questo giorno in arancione/ e si gonfia di ricordi che non sai/ mi piace restar qui sullo stradone/ impolverato, se tu vuoi andare, vai.../ e vai che io sto qui e aspetto Bartali».
Fu proprio quel “Bartali” che, un giorno di marzo del 1997, due amici portarono a un concerto dell’avvocato cantante. L’incontro tra i due avvenne durante l’intervallo. L’eroe fece due sorrisi al suo Omero e disse: «Senti Conte, la canzone mi piace, ma la fa meglio Jannacci. Eppoi, te lo devo dire, c’è una strofa che non mi garba: cos’è questa storia del na-so triste come una salita? Io a naso non sto male, ma te ti sei visto che nappa ti ritrovi?». Poi girò i tacchi e se ne andò: «Non ho tempo da perdere io. Devo tornare a casa presto, mia moglie ha questo dannato morbo di Amsterdam e non posso lasciarla sola, ha bisogno di me».
Gino e la signora Adriana hanno vissuto insieme più di sessant’anni e, alla fine, è stato lui a mollare per primo. In attesa che glielo portassero via, lei lo ha vegliato seduta su una seggiola nella loro vecchia stanza. Sopra la testata del letto, la Madonna. Verso la finestra, inclinata, una ribaltina, con una lampada accesa e due libri. Sulla parete opposta, una tela ottocentesca. Vicino alla stanza da letto, un piccolo locale adibito a cappelletta, con la statua di Santa Teresa del Bambin Gesù e due immagini di padre Pio. Lui indossava la sua divisa vera, il saio bianco avorio da terziario carmelitano, e teneva nella mano destra un rosario di legno.
La vera storia di Gino Bartali è tutta qui dentro. Potrebbe sembrare niente, però basta agitarla un attimo e diventa una fantasmagoria di petali svolazzanti come quelle bocce di tanti anni fa, che bastava girarle sottosopra per incantarsi davanti alla neve finta intenta a cadere dal cielo.Basta una piccola scossa, e dal cielo di Bartali viene giù di tutto. Il fratello morto a vent’anni correndo in bicicletta, i Tour de France e i Giri d’Italia, la polvere appiccicata in faccia come una maschera di bellezza, la voglia di piantar rogne un metro dopo il traguardo, la famiglia, la guerra e la ricostruzione. E poi quel Fausto Coppi che avrebbe preso volentieri a cazzotti se, alla fine, non gli avesse voluto bene come a un fratello.L’affetto tra due rivali non si può misurare con il metro dei giorni feriali. Un’imprecazione e uno sguardo di sbieco valgono una carezza: e, forse, anche più di una borraccia passata di mano lungo una salita.
Quello che divideva vera-mente Coppi da Bartali era l’appartenenza a due universi inconciliabili.
In un mondo che si avviava al divismo crocefiggendo la vita di Coppi, Bartali provava la voglia struggente di essere normale.Fausto andava sui rotocalchi per via della Dama Bianca, e lui si infilava nelle chiese a baciare le reliquie. Fausto diventava suo malgrado il simbolo di un’Italia in via di emancipazione, e lui testimoniava un cattolicesimo pacelliano alla “Bianco Padre che da Roma, ci sei meta, luce e guida”. Fausto dominava un ciclismo quasi scientifico, e lui pigiava sui pedali mischiando furore e giaculatorie.
Ma il problema non era Coppi.
Il problema era il mondo che stava cambiando e non certo in meglio. Bartali non si era mai avventurato in profezie sul destino della società perché non era suo compito: ma aveva previsto dove sarebbe finito il ciclismo affamato di record e di soldi.Era troppo pio per non arrivarci. Però non tutti, nell’ambiente, riuscivano a capire quella specie di Sant’Ignazio in groppa a un cavallo d’acciaio. Non comprendevano che i giudizi azzeccati sulle cose della vita erano frutto della devozione.
«Brutt bojon» ringhiava Eberardo Pavesi mentre lui si inginocchiava sul marmo delle cattedrali. «Su de lì Ginetto, fa’ minga el bamba, che così ti freddi i muscoli».
Gianni Brera cominciò a prenderlo male. Non riusciva a mettere insieme il fatto che un uomo potesse essere così materiale e così spirituale allo stesso tempo. Poi si ricredette in una splendida “Lettera a Gino Bartali”: «Da qualche anno, conoscendoti meglio, mi sono fatta la convinzione che tu sia una specie di Bertoldo devoto. Non sei, intendo, il Tartufo ipocrita e astuto che una morale ormai fuori del tempo costringe a irritante doppiezza: quando ti chiamo frate Cipolla, pensando alle margniffate di quel personaggio boccaccesco che tu forse non sai, voglio semplicemente coprire una mia debolezza. Hai avuto molto coraggio nell’esser pio. Questo è il lato più eroico».
Per quanto gli fu dato, e senza volerlo, Bartali rappresentò l’Italia cattolica del dopoguerra. E forse non lo sarebbe stato in modo così convincente se non avesse avuto come contraltare Coppi. Perché quell’Italia era fatta di Kiryeleison, di santini, di devozione, di fede, di processioni, ma anche di dispute in tuta alla mensa della fabbrica o in maniche di camicia al bar. Gli italiani si esaltavano al cospetto di una rivalità che confinava con la guerra. Fra i tavolini dei caffé scorrevano fiumi di aperitivi. Le scommesse simboleggiavano duelli che in altre epoche avrebbero fatto correre sangue. Ma era un modo di stare uniti.Quando, nel 1948, spararono a Togliatti fu evidente a tutti.
La vittoria di Bartali a una tappa del Tour non evitò una rivoluzione che nessuno avrebbe fatto. Però servì a placare animi la cui eccitazione aveva superato la soglia di attenzione. Ancora oggi, vecchi democristiani e vecchi comunisti raccontano di essersi abbracciati improvvisamente alla notizia dell’impresa del loro campione. Forse è vero solo in parte.
Ma, a maggior ragione, con quella mezza bugia testimoniano la voglia di appartenere a un’Italia cattolica che non c’è più.Non è la più grande, ma questa, fra le imprese di Gino il Pio, è la più duratura. Di suo, lui ci aveva messo solo l’ostinazione di guardare in Cielo quando le tentazioni lo avrebbero voluto volentieri con gli occhi puntati in terra. Il resto dipendeva tutto dalla stoffa di cui lo aveva fornito il Buon Dio, un sarto che non sbaglia mai. Se il Padreterno ci avesse ritagliato un’altra forma, ne avrebbe cavato comunque qualche cosa di memorabile. Uno scrittore sul genere di Papini o di Giuliotti. O un predicatore capace di mettere spalle al muro eretici di ogni risma. O un pittore incantato davanti alle vite dei santi. Invece ne ha fatto solo un corridore: forse per rivederlo più in fretta il giorno in cui gli avrebbe detto di tornare a casa.

Scheda biografica
Figlio di Torello e Giulia Sizzi, Gino Bartali nasce a Ponte a Ema, in provincia di Firenze, il 18 luglio del 1914. Ha due sorelle più anziane di lui, Anita e Natalina,e un fratello, Giulio.A 10 anni, Prima Comunione e iscrizione all’Azione Cattolica: «Dio, famiglia, amici sono stati i cardini della mia vita» dirà sempre. Sposa Adriana Bani il 14 novembre del 1940, da cui avrà tre figli: Andrea, Luigi e Biancamaria.
È morto il 5 maggio del 2000 nella sua casa di Ponte a Ema.
Queste le sue vittorie più importanti:2 Tour de France (1938, 1948);3 Giri d’Italia (1936, 1937, 1946);4 Milano-Sanremo (1939, 1940, 1947, 1950);3 Giri di Lombardia (1936, 1939, 1940);2 Giri di Svizzera (1946, 1947);4 maglie di campione d’Italia (1935, 1937, 1940, 1952);1 Coppa Bernocchi (1935);1 Tre Valli Varesine (1938);1 Giro di Romandia (1949);1 Giro dei Paesi Baschi (1935).Tra il 1931 e il 1954 corse 988 gare, ne vinse 184, 45 per distacco.

IL TIMONE - N.61 - ANNO IX - Marzo 2007 pag. 52-53

mercoledì 23 giugno 2010

MIRACOLO A TRIESTE (da I forum di Totus Tuus)

La notizia che sto per dare è quasi prodigiosa.
L’arcivescovo di Trieste, mons. Giampaolo Crepaldi, ha cominciato un bombardamento a tappeto contro il cattolicesimo adulto, alias cattoprogressismo postconciliare, alias cattomodernismo, alias fumo di satana.
L’evento è da spiegare per fasi:

L’antefatto

Trieste è dotata di un giornaletto - Vita Nuova - che si autodefinisce, dalla fondazione (1920), primo settimanale cattolico della diocesi. In realtà è l’unico, perché ogni altra voce è stata zittita a dovere.
È un foglietto di caratura modernista dove, al posto del Magistero, imperano i lemmi “Dialogo”, “Tolleranza”, “Accoglienza”, “Sfide”… insomma la solita carrellata di luoghi comuni che, propinati come la musica di un grammofono rotto, tutt’al più possono interagire con una salutare pennichella.
È un foglietto, come avrete capito, completamente insipido, dello stesso genere zoomorfo di una Famiglia Cristiana, per intenderci, o di una pubblicazione dei Paolini.

La rubrica delle Lettere del suddetto settimanale, tra i tanti venti di dottrina eterodossa (senza controreplica), ha ospitato sistematicamente negli ultimi sei anni una Lettera di Natale, all’apparenza innocua.
Solo all’apparenza: trattasi viceversa di un manifesto periodico di stucchevole dottrina cattomodernista, perpetrata da un drappello di preti di frontiera, allergici alla dottrina cattolica.
Gli stessi preti di frontiera, tra l’altro, che chiedevano pervicacemente la linea del silenzio o del sostegno alla causa della dolce morte, in merito alla vicenda di Eluana Englaro.
Ogni anno una lettera natalizia dai contenuti sempre diversi, ma dal messaggio identico e… aihmé ben conosciuto: la Chiesa deve aggiornarsi, basta con i dogmi, il vento del rinnovamento, riformare, riformare, riformare…

Il fatto

L’arcivescovo Giampaolo Crepaldi ha detto un secco, mirato, chiarissimo «basta».
Basta con il modernismo, cioè. Basta con il relativismo. Basta con il cattolicesimo adulto.
Ha riunito la redazione, l’ha strigliata a dovere e, per somministrare una provocazione inequivocabile, ha chiuso d’ufficio la rubrica delle Lettere.
Ma nessuno, a Trieste, aveva capito molto di tutto ciò, almeno prima delle reazioni stizzite dei maître à penser locali.

Le reazioni

Chi poteva protestare con l’arcivescovo, se non l’epigono dell’agonizzante cultura triestina?
Ma sì! Claudio Magris, tutto indignato, scrive allora al vescovo, dicendosi stupito per questo inspiegabile - inspiegabile per lui che, purtroppo, non ci arriva da solo - attacco al dialogo, da parte del porporato.
Come di consueto, Magris è lontano dalla comprensione delle cose umane e divine.
A questo punto mons. Crepaldi risponde schietto ed il mistero finalmente si scioglie.
Ovviamente l’arcivescovo ha chiuso la rubrica «non per mortificare il dialogo, ma per favorirlo». Afferma papale papale che Vita Nuova stava «scivolando lentamente dal suo essere uno spazio cattolico per diventare una specie di spazio neutro dove tutti potevano scrivere tutto e il contrario di tutto, fino al punto di auspicare una Chiesa di relazioni senza riti e senza dogmi».

Dialogo sì, ma con i giusti «presupposti»: «Chi non ha volto non è nella condizione di riconoscere il volto dell’altro e di dialogare con lui». Mons. Crepaldi non poteva essere più esplicito. Dialogare non significa inzupparsi nel caos democratico della fiera di tutte le opinioni, tanto caro a Magris e sodali.
E, proprio nei confronti di Magris, il presule affonda una sciabolata: «Nella mia vita ho imparato presto a diffidare di chi ha sempre in bocca le parole dialogo, tolleranza e pluralismo. Si tratta di persone, in genere, convinte di possedere la verità». Il vero compito del cristiano è, invece, quello di cercare «umilmente e cristianamente di rendersi disponibili a lasciarsi possedere dalla verità».

La risposta di mons. Crepaldi è un capolavoro, specialmente nel rispondere ai modernisti o alla «pretesa di qualche cultore del pluralismo più estremo che pesta i piedi per veder pubblicati i suoi scritti contrari alla fede, alla chiesa e al magistero con i soldi della Diocesi».
Proprio dei “cultori del pluralismo”, l’arcivescovo ne tratteggia l’ipocrisia farisaica: «Se poi tenti di sollevare il coperchio di qualche loro pentolino, eccoli pronti a mettere in scena un vittimismo che a me sembra senza dignità e responsabilità. Le uniche vittime se di vittime vogliamo parlare […] sono il bene immenso della fede cattolica e le casse della Diocesi.»

E, difatti, Vita Nuova tace o balbetta qualcosa. La Redazione si è chiusa ermeticamente nel «vittimismo», senza neanche sognarsi di obbedire. Loro sono discepoli di don Milani e, pertanto, non associano all’obbedienza nessuna natura virtuosa.
Certo, sono finiti i tempi del precedente vescovo Eugenio Ravignani, entusiasta della Chiesa adulta e silenziosa. Sotto di lui i gesuiti del Centro Veritas potevano tranquillamente invitare Vito Mancuso a dare lezioni di cristianesimo. In genere i vescovi triestini dell’ultimo mezzo secolo sono stati assai taciturni.

Mons. Giampaolo Crepaldi no. Lui non tace.
Molti della chiesa triestina sono con lui, in particolare don Giorgio Carnelos, parroco della Cattedrale, che senza timore difende l’arcivescovo: «Quello che mi dà fastidio sono i ”pretonzoli” che scrivono lettere. Se avessero più fede, non scriverebbero lettere e non agirebbero così. E questo vale anche per Vita Nuova. Quando non c’è fede, si agisce per sé».
I «pretonzoli», chiamati in causa rispondono con strafottenza: «Esprimiamo la nostra appartenenza alla Chiesa del Regno di Dio e del Concilio Vaticano II, la chiesa dell’opzione decisa per i poveri, la chiesa del pluralismo e del dialogo, la chiesa profetica dell’annuncio del Vangelo e della coerente testimonianza nella storia; non quella del potere, ma maestra dell’anima, sempre al servizio dell’umanità». Insomma, il consueto manifesto modernista cattoadulto.

Conclusioni

Anche se molti, come dicevo, danno man forte all’arcivescovo, devo purtroppo dire che la Chiesa di Trieste è quasi interamente nelle mani dei modernisti.
Non si riesce ad ottenere una sola Messa in latino domenicale, anche perché non la richiede praticamente nessuno.
Il percorso di mons. Giampaolo Crepaldi è francamente un cammino tutto in salita.
Certo questa bomba atomica ci voleva, ma i combattenti sono pochi e poco risoluti.
In ogni caso, non prevalebunt.
***
silvio

giovedì 25 febbraio 2010

Caffarra: tutta la verità su matrimonio e unioni omosessuali

Scritto da Mario PALMARO
19-02-2010
È un documento assolutamente da leggere e da far leggere, il testo pubblicato il 14 febbraio dall’arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra. Affiggetelo nelle bacheche dei vostri uffici e delle vostre parrocchie, fate in modo che la gente comune sappia qual è il vero pensiero della Chiesa. Stiamo parlando di una “Nota dottrinale” che riguarda matrimonio e unioni omosessuali, e che riassume in modo tanto sintetico quanto vigoroso tutto quello che c’è da sapere sull’argomento.

Non ringrazieremo mai abbastanza il cardinale Caffarra per il coraggio e la precisione con cui sta svolgendo il suo ruolo di vescovo, cioè di colui che etimologicamente sta “in un luogo sopraelevato di osservazione” per custodire e guidare il suo gregge. Una condizione di grande responsabilità, che si carica su di sé il destino delle anime di un’intera diocesi, pronto a rispondere di ciascuna davanti a Cristo giudice. Un vescovo si espone a una grave colpa se decide di tacere la verità, ad esempio quando la voce della Chiesa entra in risonanza con la mentalità del mondo e con il terreno accidentato della politica. Come ad esempio nella questione ormai sempre più critica del “riconoscimento giuridico” delle unioni omosessuali. L’antico adagio per cui “chi tace acconsente” trova qui una evidente conferma.Caffarra, appunto, non è tra coloro che tacciono. Parla e parla chiaro, evitandoci la fatica di doverlo interpretare. Nel documento, si dicono essenzialmente sette cose.
Primo: il matrimonio è un’istituzione fondamentale per l’umanità, un «bene pubblico» di rilevanza giuridica, il che spiega perché lo Stato riservi agli sposi un trattamento di favore. Allo stesso tempo, il matrimonio attraversa una crisi che Caffarra definisce senza precedenti. La crisi non si colloca tanto sul piano delle debolezze personali – ci sono tanti divorzi e separazioni – quanto sul piano del bene del “giudizio circa il bene del matrimonio”. I nostri contemporanei non capiscono più quanto sia prezioso l’istituto matrimoniale.
Secondo: la prova di questa «disistima intellettuale» sta proprio nelle iniziative che gli Stati vogliono adottare per equiparare le unioni omosessuali all’unione legittima fra uomo e donna, compresa anche l’adozione di figli. Per Caffarra – e per la Chiesa – questa è una ferita al bene comune. Dunque – sottolineiamo noi – non si tratta solo di una deviazione dalla morale cattolica, ma di un vulnus che colpisce le fondamenta della convivenza civile, e che configura così l’attuazione di una vera e propria legge gravemente ingiusta. Cioè, a rigore, una “non-legge”. Lo Stato – spiega Caffarra – non può dichiararsi neutrale di fronte a due modi di vivere la sessualità «che non sono in realtà ugualmente rilevanti per il bene comune» perché «la società deve la sua sopravvivenza non alle unioni omosessuali, ma alla famiglia fondata sul matrimonio».
Terzo: in questa materia le mezze misure non possono salvare capra e cavoli: Caffarra sottolinea a scanso di equivoci che è inaccettabile «l’equiparazione in qualsiasi forma o grado della unione omosessuale al matrimonio». In questo modo viene chiuso ogni spiraglio alla «invenzione» di soluzioni pasticciate di compromesso, inventate per “tenere buoni” i cattolici e accontentare le lobby omosessuali.
Quarto: la materia è grave perché – scrive Caffarra - l’equiparazione fra matrimonio e legame omosessuale avrebbe «effetti devastanti nell’ordinamento giuridico e poi nell’ethos del nostro popolo».
Quinto: tutte le argomentazioni a favore di tale equiparazione sono razionalmente infondate, e la “nota dottrinale” si premura di smontarle una ad una, senza ricorrere a dogmatismi o ad argomenti fideistici, ma facendo appello al buon senso comune, che può essere condiviso da ogni persona di buona volontà, che non sia accecata da furore ideologico anticattolico e anti-matrimoniale.
Sesto: un cattolico impegnato in politica non può adottare simili scelte, pretendendo di restare nella Chiesa: «La presente Nota intende (…) illuminare quei credenti cattolici che hanno responsabilità pubbliche di ogni genere, perché non compiano scelte che pubblicamente smentirebbero la loro appartenenza alla Chiesa». Un politico cattolico ha il dovere «di una piena coerenza fra ciò che crede e ciò che pensa e propone a riguardo del bene comune». E, quindi, «è impossibile fare coabitare nella propria coscienza e la fede cattolica e il sostegno alla equiparazione fra unioni omosessuali e matrimonio: i due si contraddicono».
Settimo: se un cattolico propone e sostiene tale equiparazione nel nostro ordinamento giuridico compie «un atto pubblicamente e gravemente immorale». Ma «esiste anche la responsabilità di chi dà attuazione, nella varie forme, ad una tale legge. Se ci fosse bisogno, quod Deus avertat, al momento opportuno daremo le indicazioni necessarie. È impossibile ritenersi cattolici se in un modo o nell’altro si riconosce il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso».
Il cardinale dice proprio così: «impossibile». Facciamo in modo che tutti i cattolici in politica, dai ministri che siedono al governo ai consiglieri del più piccolo comune d’Italia, lo sappiano.
************

MATRIMONIO E UNIONI OMOSESSUALI
Nota Dottrinale del 14 febbraio 2010
Carlo Card. Caffarra Arcivescovo di Bologna

La presente Nota si rivolge in primo luogo ai fedeli perché non siano turbati dai rumori mass-mediatici. Ma oso sperare che sia presa in considerazione anche da chi non-credente intenda fare uso, senza nessun pregiudizio, della propria ragione.
1. Il matrimonio è uno dei beni più preziosi di cui dispone l’umanità. In esso la persona umana trova una delle forme fondamentali della propria realizzazione; ed ogni ordinamento giuridico ha avuto nei suoi confronti un trattamento di favore, ritenendolo di eminente interesse pubblico.In Occidente l’istituzione matrimoniale sta attraversando forse la sua più grave crisi. Non lo dico in ragione e a causa del numero sempre più elevato dei divorzi e separazioni; non lo dico a causa della fragilità che sembra sempre più minare dall’interno il vincolo coniugale: non lo dico a causa del numero crescente delle libere convivenze. Non lo dico cioè osservando i comportamenti.La crisi riguarda il giudizio circa il bene del matrimonio. È davanti alla ragione che il matrimonio è entrato in crisi, nel senso che di esso non si ha più la stima adeguata alla misura della sua preziosità. Si è oscurata la visione della sua incomparabile unicità etica.Il segno più manifesto, anche se non unico, di questa "disistima intellettuale" è il fatto che in alcuni Stati è concesso, o si intende concedere, riconoscimento legale alle unioni omosessuali equiparandole all’unione legittima fra uomo e donna, includendo anche l’abilitazione all’adozione dei figli.A prescindere dal numero di coppie che volessero usufruire di questo riconoscimento – fosse anche una sola! – una tale equiparazione costituirebbe una grave ferita al bene comune.La presente Nota intende aiutare a vedere questo danno. Ed anche intende illuminare quei credenti cattolici che hanno responsabilità pubbliche di ogni genere, perché non compiano scelte che pubblicamente smentirebbero la loro appartenenza alla Chiesa.
2. L’equiparazione in qualsiasi forma o grado della unione omosessuale al matrimonio avrebbe obiettivamente il significato di dichiarare la neutralità dello Stato di fronte a due modi di vivere la sessualità, che non sono in realtà ugualmente rilevanti per il bene comune.Mentre l’unione legittima fra un uomo e una donna assicura il bene – non solo biologico! – della procreazione e della sopravvivenza della specie umana, l’unione omosessuale è privata in se stessa della capacità di generare nuove vite. Le possibilità offerte oggi dalla procreatica artificiale, oltre a non essere immuni da gravi violazioni della dignità delle persone, non mutano sostanzialmente l’inadeguatezza della coppia omosessuale in ordine alla vita.Inoltre, è dimostrato che l’assenza della bipolarità sessuale può creare seri ostacoli allo sviluppo del bambino eventualmente adottato da queste coppie. Il fatto avrebbe il profilo della violenza commessa ai danni del più piccolo e debole, inserito come sarebbe in un contesto non adatto al suo armonico sviluppo.Queste semplici considerazioni dimostrano come lo Stato nel suo ordinamento giuridico non deve essere neutrale di fronte al matrimonio e all’unione omosessuale, poiché non può esserlo di fronte al bene comune: la società deve la sua sopravvivenza non alle unioni omosessuali, ma alla famiglia fondata sul matrimonio.
3. Un’altra considerazione sottopongo a chi desideri serenamente ragionare su questo problema.L’equiparazione avrebbe, dapprima nell’ordinamento giuridico e poi nell’ethos del nostro popolo, una conseguenza che non esito definire devastante. Se l’unione omosessuale fosse equiparata al matrimonio, questo sarebbe degradato ad essere uno dei modi possibili di sposarsi, indicando che per lo Stato è indifferente che l’uno faccia una scelta piuttosto che l’altra. Detto in altri termini, l’equiparazione obiettivamente significherebbe che il legame della sessualità al compito procreativo ed educativo, è un fatto che non interessa lo Stato, poiché esso non ha rilevanza per il bene comune. E con ciò crollerebbe uno dei pilastri dei nostri ordinamenti giuridici: il matrimonio come bene pubblico. Un pilastro già riconosciuto non solo dalla nostra Costituzione, ma anche dagli ordinamenti giuridici precedenti, ivi compresi quelli così fieramente anticlericali dello Stato sabaudo.
4. Vorrei prendere in considerazione ora alcune ragioni portate a supporto della suddetta equiparazione.La prima e più comune è che compito primario dello Stato è di togliere nella società ogni discriminazione, e positivamente di estendere il più possibile la sfera dei diritti soggettivi.Ma la discriminazione consiste nel trattare in modo diseguale coloro che si trovano nella stessa condizione, come dice limpidamente Tommaso d’Aquino riprendendo la grande tradizione etica greca e giuridica romana: "L’uguaglianza che caratterizza la giustizia distributiva consiste nel conferire a persone diverse dei beni differenti in rapporto ai meriti delle persone: di conseguenza se un individuo segue come criterio una qualità della persona per la quale ciò che le viene conferito le è dovuto non si verifica una considerazione della persona ma del titolo" [2,2, q.63, a. 1c].
Non attribuire lo statuto giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né possono essere matrimoniali, non è discriminazione ma semplicemente riconoscere le cose come stanno. La giustizia è la signoria della verità nei rapporti fra le persone.Si obietta che non equiparando le due forme lo Stato impone una visione etica a preferenza di un’altra visione etica.L’obbligo dello Stato di non equiparare non trova il suo fondamento nel giudizio eticamente negativo circa il comportamento omosessuale: lo Stato è incompetente al riguardo. Nasce dalla considerazione del fatto che in ordine al bene comune, la cui promozione è compito primario dello Stato, il matrimonio ha una rilevanza diversa dall’unione omosessuale. Le coppie matrimoniali svolgono il ruolo di garantire l’ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico, e pertanto il diritto civile deve conferire loro un riconoscimento istituzionale adeguato al loro compito. Non svolgendo un tale ruolo per il bene comune, le coppie omosessuali non esigono un uguale riconoscimento.Ovviamente – la cosa non è in questione – i conviventi omosessuali possono sempre ricorrere, come ogni cittadino, al diritto comune per tutelare diritti o interessi nati dalla loro convivenza.Non prendo in considerazione altre difficoltà, perché non lo meritano: sono luoghi comuni, più che argomenti razionali. Per es. l’accusa di omofobia a chi sostiene l’ingiustizia dell’equiparazione; l’obsoleto richiamo in questo contesto alla laicità dello Stato; l’elevazione di qualsiasi rapporto affettivo a titolo sufficiente per ottenere riconoscimento civile.
5. Mi rivolgo ora al credente che ha responsabilità pubbliche, di qualsiasi genere.Oltre al dovere con tutti condiviso di promuovere e difendere il bene comune, il credente ha anche il grave dovere di una piena coerenza fra ciò che crede e ciò che pensa e propone a riguardo del bene comune. È impossibile fare coabitare nella propria coscienza e la fede cattolica e il sostegno alla equiparazione fra unioni omosessuali e matrimonio: i due si contraddicono.Ovviamente la responsabilità più grave è di chi propone l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della suddetta equiparazione, o vota a favore in Parlamento di una tale legge. È questo un atto pubblicamente e gravemente immorale.Ma esiste anche la responsabilità di chi dà attuazione, nella varie forme, ad una tale legge.
Se ci fosse bisogno, quod Deus avertat, al momento opportuno daremo le indicazioni necessarie.È impossibile ritenersi cattolici se in un modo o nell’altro si riconosce il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso.
Mi piace concludere rivolgendomi soprattutto ai giovani. Abbiate stima dell’amore coniugale; lasciate che il suo puro splendore appaia alla vostra coscienza. Siate liberi nei vostri pensieri e non lasciatevi imporre il giogo delle pseudo-verità create dalla confusione mass-mediatica.
La verità e la preziosità della vostra mascolinità e femminilità non è definita e misurata dalle procedure consensuali e dalle lotte politiche.
Bologna, 14 febbraio 2010
Festa dei Santi Cirillo e Metodio Compatroni d’Europa


La Voce del Timone

lunedì 9 novembre 2009

Da "DON CAMILLO
IL VANGELO DEI SEMPLICI"
a cura di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
àncora editrice 1999
Giovannino Guareschi : GIACOMONE
riletto da
Giacomo BIffi
dal Vangelo di Marco (15, 21)
Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce.
GIACOMONE
Il vecchio Giacomone aveva bottega nella città bassa. Una stanzaccia con un banco da falegname, una stufetta di ghisa e una cassa.
Dentro la cassa, Giacomone teneva un materasso di crine che, la sera, cavava fuori e distendeva sul banco : e lì dormiva.
Anche il mangiare non era un problema serio per Giacomone, perchè con un pezzo di pane e una crosta di formaggio tirava avanti una giornata : il problema era il bere.
Giacomone, infatti, aveva uno stomaco di quel tipo che usava tempo addietro : quando, cioè, c'era gente che riusciva a trovare dentro una pinta di vino il nutrimento necessario per vivere sani e svelti come un pesce. Forse perchè, allora, non avevano ancora inventato le calorie, le proteine, le vitamine e le altre porcherie che complicano la vita d'oggi giorno.
Giacomone, quindi, finiva sbronzo la sua giornata : d'estate dormiva sulla prima panchina che gli capitava davanti. D'inverno, dormiva sul banco. E, siccome il banco era lungo ma stretto e alto, Giacomone, agitandosi, correva il rischio di cascare per terra : allora, prima di chiudere gli occhi, si avvolgeva nel tabarro serrandone i lembi fra le ganasce della morsa. Così poteva rigirarsi senza il pericolo di sbattere la zucca contro i ciottoli del pavimento.
Giacomone accettava soltanto lavori di concetto : riparazioni di sedie, di cornici, di bigonci e roba del genere. La falegnameria pesante non l'interessava. E, per falegnameria pesante, egli intendeva ogni lavoro che implicasse l'uso della pialla, dello scalpello, della sega. Egli ammetteva soltanto l'uso della colla, della carta vetrata, del martello e del cacciavite. Anche perchè non possedeva altri strumenti.
Giacomone, però, trattava anche il ramo commerciale e, quando qualcuno voleva sbarazzarsi di qualche vecchio mobile, lo mandava a chiamare. Ma si trattava sempre di bagattelle da quattro soldi e c'era poco da stare allegri.
Un affare eccezionale gli capitò fra le mani quando morì la vecchia che abitava al primo piano della casa dirimpetto alla sua bottega. Aveva la casa zeppa di roba tenuta bene e toccò ogni cosa a un nipote che, prima ancora di entrare nella casa, si preoccupò di sapere dove avrebbe potuto vendere tutto e subito.
Giacomone si incaricò della faccenda e in una settimana riuscì a collocare la mercanzia. Alla fine, rimase nell'appartamento soltanto un gran Crocifisso di quasi un metro e mezzo con un Cristo di legno scolpito.
"E quello?" domandò l'erede a Giacomone indicandogli il Crocifisso.
"Credevo che lo teneste" rispose Giacomone.
"Non saprei dove metterlo" spiegò l'erede. "Vedete di darlo via. Pare molto antico. C'è il caso che sia una cosa di valore".
Giacomone aveva visto ben pochi Crocifissi in vita sua : comunque era pronto a giurare che, quello, era il più brutto Crocifisso dell'universo. Si caricò il crocione in spalla e andò in giro ma nessuno lo voleva.
Tentò il giorno dopo e fu la stessa cosa. Allora arrivò fino a casa dell'erede e gli disse che se voleva vendere il Crocifisso si arrangiasse lui.
"Tenetevelo" rispose l'erede. "Io non voglio più saperne niente. Se vi va di regalarlo regalatelo. Se riuscirete a smerciarlo, meglio per voi : soldi vostri".
Giacomone si tenne il Crocifisso in bottega e, il primo giorno che si trovò senza soldi, se lo caricò in spalla e andò in giro a offrirlo.
Girò fino a tardi e, prima di tornare in bottega, entrò nell'osteria del Moro. Appoggiò il Crocifisso al muro e, sedutosi a un tavolo, comandò un mezzo di vino rosso.
"Giacomone" gli rispose l'oste "dovete già pagarmi dodici mezzi. Pagate i dodici e poi vi porto il vino".
"Domani pago tutto" spiegò Giacomone. "Sono in parola con una signora di Borgo delle Colonne. E' un Cristo antico, roba artistica, e saranno soldi grossi".
L'oste guardò il Cristo e si grattò perplesso la zucca : "Io non me ne intendo" borbottò "ma ho l'idea che un Cristo più brutto di quello lì non ci sia in tutto l'universo".
"La roba antica più è brutta e più è bella" rispose Giacomone. "Voi guardate le sculture e le pitture del Battistero e poi ditemi se sono più belle di questo Cristo".
L'oste portò il vino, e poi ne portò ancora perchè Giacomone aveva una tale fame che avrebbe bevuto una damigiana di barbera.
L'osteria si riempì di gente e il povero Cristo sentì discorsi da far venire i capelli ricci a un brigadiere dei carabinieri pettinato "all'umberta".
A mezzanotte Giacomone tornò in bottega col suo Cristo in spalla e, siccome due o tre volte si trovò a un pelo dal cadere lungo disteso perchè quel peso lo sbilanciava, tirò fuori di sotto il vino che aveva nello stomaco delle bestemmie lunghe come racconti.
La storia del Cristo si ripetè i giorni seguenti : e ogni sera Giacomone faceva tappa a un'osteria diversa e passò tutte le osterie dove era conosciuto.
Così continuò fino a quando, una notte, la pattuglia agguantò Giacomone che, col Cristo in spalla, navigava verso casa rotolando come una nave sbattuta dalla burrasca.
Portarono Giacomone in guardina e il Cristo, appoggiato a un muro della stanza del corpo di guardia, ebbe agio di ascoltare le spiritose storie che rallegravano di solito i questurini di servizio notturno.
La mattina Giacomone fu portato davanti al commissario che gli disse subito che non facesse lo spiritoso e spiegasse dove avesse rubato quel Crocifisso.
"Me l'hanno dato da vendere" affermò Giacomone e diede il nome e l'indirizzo del nipote della vecchia signora morta.
Lo rimisero in camera di sicurezza e, verso sera, lo tirarono fuori un'altra volta.
"Il Crocifisso è vostro" gli disse il commissario "e va bene. Però questo schifo deve finire. Quando andate all'osteria, lasciate a casa il Cristo. La prima volta che vi pesco ancora vi sbatto dentro".
Fu, quella, una triste sera per il Cristo : perchè Giacomone se la prese con Lui e gli disse roba da chiodi.
Si ubriacò senza Cristo ma, alle tre del mattino, si alzò, si caricò il Cristo in spalla e, raggiunta per vicoletti oscuri la periferia, si diede alla campagna.
"Vedrai se questa volta non riesco a rifilarTi a qualche disgraziato di villano o di parroco!" disse Giacomone al Cristo.
Era autunno e incominciava a far fresco, la mattina : Giacomone s'era buttato addosso il tabarro e così, col grande Crocifisso in spalla e il passo affaticato, aveva l'aria di uno che viene da molto lontano.
All'alba, passò davanti a una casa isolata : una vecchia era nell'orto e, vedendo Giacomone con la croce in spalla, si segnò.
"Pellegrino!" disse la vecchia. "Volete una scodella di latte caldo?".
Giacomone si fermò.
"Andate a Roma?" s'informò la vecchia.
Giacomone fece segno di sì con la testa.
"Da dove venite?"
"Friuli" rispose Giacomone.
La vecchia allargò le braccia in atto di sgomento e gli ripetè che entrasse a bagnarsi le labbra con qualcosa.
Giacomone entrò. Il latte, a guardarlo, gli faceva nausea : poi lo assaggiò ed era buono. Mangiò mezza micca di pane fresco e continuò la sua strada.
Schivò le strade provinciali; prese scorciatoie attraverso i campi e battè le case isolate.
"Passo di qui perchè la strada è piena di sassi e di polvere e ho i piedi che mi sanguinano e gli occhi che mi piangono" spiegava Giacomone quando traversava qualche aia. "E poi ho fatto il voto così. Vado a Roma in pellegrinaggio. Vengo dal Friuli".
Una scodella di vino e un pezzo di pane non glieli negava nessuno. Giacomone metteva il pane in saccoccia, beveva il vino e riprendeva la sua strada. Di notte smaltiva la sua sbronza sotto qualche capanna, in mezzo ai campi.
In seguito era diventato più furbo : s'era procurato una specie di grossa borraccia da due litri. Non beveva il vino quando glielo davano, lo versava dentro la borraccia : "Mi servirà stanotte se ho freddo o mi viene la debolezza" spiegava.
Poi, appena arrivato fuori tiro, si attaccava al collo della borraccia e pompava. Però faceva le cose per bene in modo da trovarsi la sera con la borraccia piena. Allora, quando si era procurato il ricovero, scolava la borraccia e perfezionava la sbornia.
Il freddo incominciò a farsi sentire, ma, quando Giacomone aveva fatto il pieno, era come se avesse un termosifone acceso dentro la pancia.
E via col suo povero Cristo in spalla.
"Vado a Roma, vengo dal Friuli", spiegava Giacomone.
E quando era sborniato e traballava, la gente diceva : "Poveretto, com'è stanco!"
E poi gli era cresciuta la barba e pareva un romito davvero.
Giacomone, che aveva la testa sulle spalle, aveva fatto in modo di gironzolare tutt'attorno alla città : ma l'uomo propone e il vino dispone. Così andò a finire che perdette la bussola e si trovò, un bel giorno, a camminare su una strada che non finiva mai di andare in su.
Voleva tornare indietro e rimanere al piano : poi pensò che gli conveniva approfittare di quelle giornate ancora di bel tempo per passare il monte. Di là avrebbe trovato il mare e, al mare, freddo che sia, fa sempre caldo.
Camminò passando da una sbronza all'altra, sempre evitando la strada perchè aveva paura di imbattersi nei carabinieri : prendeva i sentieri e questo gli permetteva di battere le case isolate.
L'ultima sbronza fu straordinaria perchè capitò in una casa dove si faceva un banchetto di nozze e lo rimpinzarono di mangiare e di vino fino agli occhi.
Oramai era quasi arrivato al passo. La notte dormì in una baita e, la mattina dopo, si svegliò tardi, verso il mezzogiorno : affacciatosi alla porta della baracca si trovò in mezzo a un deserto bianco con mezza gamba di neve. E continuava a nevicare.
"Se mi fermo qui rimango bloccato e crepo di fame o di freddo" pensò Giacomone e, caricatosi il Cristo in spalla, si mise in cammino.
Secondo i suoi conti, dopo un'ora avrebbe dovuto arrivare a un certo paese. Aveva ancora la testa annebbiata per il gran vino bevuto il giorno prima, e poi la neve fa perdere l'orizzonte.
Si trovò, sul tardo pomeriggio, sperduto fra la neve. E continuava a nevicare.
Si fermò al riparo di un grosso sasso. La sbornia gli era passata completamente. Non aveva mai avuto il cervello così pulito.
Si guardò attorno e non c'era che neve, e neve veniva giù dal cielo. Guardò il Cristo appoggiato alla roccia.
"In che pasticcio Vi ho messo, Gesù" disse. "E siete tutto nudo..."
Giacomone spazzò via col fazzoletto la neve che si era appiccicata sul Crocifisso. Poi si cavò il tabarro e, con esso, coperse il Cristo.
Il giorno dopo trovarono Giacomone che dormiva il suo eterno sonno, rannicchiato ai piedi del Cristo.
E la gente non capiva come mai Giacomone si fosse tolto il tabarro per coprire il Cristo.
Il vecchio prete del paese rimase a lungo a guardare quella strana faccenda. Poi fece seppellire Giacomone nel piccolo cimitero del paesino e fece incidere sulla pietra queste parole :
Qui giace un cristiano
e non sappiamo il suo nome
ma Dio lo sa
perchè è scritto nel libro dei Beati.
INSOLITA CANONIZZAZIONE
Di Giacomo Biffi
La scrittura di Guareschi - anzi sarebbe forse più pertinente dire il suo "discorrere" - più che a scegliere le parole con arte o a enunciare in modo rigoroso dei concetti, mira ad arrivare direttamente alle cose. Certo le parole, senza essere mai ricercate, sono sempre splendidamente efficaci e proprie; i concetti, offerti senza inutili compiacimenti, sono tutti limpidi e giusti. Ma ciò che si vuol raggiungere non è tanto un'ammirevole esposizione di idee nè una qualche originale virtuosità terminologica, quanto una "comunione con le cose".
Forse nasce da qui il caso insolito e curioso di un autore che sa conquistare la simpatia e l'apprezzamento di milioni di uomini di ogni ceto sociale e di ogni latitudine, ma ha sempre faticato a farsi prendere sul serio dagli "addetti ai lavori" letterari.
Guareschi ama, ricerca e in ogni pagina insegue ciò che è "reale". E questa, a ben riflettere, è la ragione della sua oggettiva, intrinseca e quasi involontaria religiosità : perchè - non dobbiamo mai dimenticarlo nonostante l'allergia della cultura dominante - tra tutti i "reali" il più "reale" è Dio. E non solo Dio, ma anche Cristo nel quale - ci rivela San Paolo - "tutte le cose sussistono" (Col 1, 17).
Così capita di scoprire in questi racconti folgorazioni teologiche degne dei più profondi pensatori cristiani.
Per esempio, alla lettura del difficile e tormentato rapporto di Giacomone con il grande Crocifisso che gli è venuto inopinatamente a incombere sugli omeri e sulla vita, viene in mente quel che dice sant'Ambrogio a proposito del Cireneo, il quale, senza averlo minimamente previsto e senza averlo affatto voluto, è entrato da protagonista indimenticabile - lui fino ad allora sconosciuto e del tutto disinteressato - nel dramma più decisivo della storia..........
"Il Vincitore innalzi ormai il suo trionfo! Sulle sue spalle viene imposta la croce come un trionfo, e - l'abbia portata Simone o l'abbia portata lui stesso - è sempre Cristo che porta la croce nell'uomo e l'uomo nel Cristo".
Anche Giacomone porta a spasso il suo molesto fardello, cercando di liberarsene. Ma nella verità profonda delle cose proprio questo suo compagno scomodo e opprimente "lo porta" : cioè gli dà la forza di reggerne il peso e di continuare a camminare. Anzi, lo guida e lo spinge su strade inattese, lo assimila progressivamente a sè e lo trasforma - da uomo senza ideali (che non fosse quello di assicurarsi la sua razione quotidiana di vino) - in un pellegrino proteso verso la santa Città degli apostoli.
Un'avventura spirituale come questa è incomprensibile al "mondo", e particolarmente al mondo ufficiale della cultura e del potere. "Questo schifo deve finire" gli dice infatti il commissario, che pure l'aveva riconosciuto non perseguibile.
Invece le vecchine capiscono : sono sostanzialmente della stessa stoffa di Giacomone, semplici come lui.
E non solo capiscono, ma senza volerlo gli rivelano la sua indole più autentica e la sua altissima "vocazione". Sono loro a farsi concrete collaboratrici della grazia nell'operare un prodigio : l'interiore elevazione di questo ubriacone che da sè solo non aveva nè progetti nè speranza.
........................
"Beati i poveri in ispirito, perchè di essi è il Regno dei cieli" (Mt 5, 3), aveva detto Gesù. Giacomone non poteva nemmeno sospettarlo, ma lui era uno di questi principi ereditari in incognito. Il suo Salvatore però lo sapeva e - per una strada inedita, che non si trova descritta nei trattati teologici - va a raggiungerlo dove egli si trova e piano piano lo conduce al vertice della gioia e della gloria.
..............................
All'inizio il Cristo - "il più brutto Crocifisso dell'universo" - è per lui solo un oggetto indesiderato e ingombrante, da vendere il più in fretta possibile a finanziamento di qualche bevuta. Poi adagio adagio diventa "qualcuno"; diventa una persona concreta e viva con cui si può anche litigare. "Giacomone se la prese con lui e gli disse roba da chiodi". E' la libertà di parlare e di insolentirsi che c'è tra gli amici sicuri.
Come? Il Figlio di Dio amico e quasi complice di un "beone"?
I ben pensanti si stupiscono; ma perchè non si ricordano più che anche il Figlio di Dio ha accettato di essere messo tra coloro cui piace più il vino dell'acqua : "Ecco un mangione e un beone" (Mt 11, 19), dicevano ai suoi tempi di lui.
Alla fine Cristo non è più solo un amico. E' un fratello da aiutare, da difendere, da amare :
"Giacomone spazzò via col fazzoletto la neve che si era appiccicata sul Crocifisso. Poi si cavò il tabarro e, con esso, coperse il Cristo"
Giacomone arriva così ai vertici della santità ed è ormai pronto per entrare nel Regno, secondo la promessa di colui che davvero non manca mai di parola :
"Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perchè...............ero nudo e mi avete vestito (mt 25, 34.36).
L'ortodossia di Guareschi è ineccepibile : non si dimentica neppure del necessario intervento della Chiesa nelle peripezie dello spirito umano. E' il cattolicesimo che egli attinge con naturalezza dalla storia e dalla cultura antica del nostro popolo, dal quale è sempre stato ben attento a non estraniarsi.
Non basta la "gente" a cogliere in modo esauriente il senso della misteriosa vicenda di Giacomone : "La gente non capiva come mai Giacomone si fosse tolto il tabarro per coprire il Cristo".
Ci vuole il giudizio della Chiesa, rappresentata al livello più vicino e diretto che è quello parrocchiale : "Il vecchio prete del paese rimase a lungo a guardare quella strana faccenda. Poi fece seppellire Giacomone nel piccolo cimitero del paesino e fece incidere sulla pietra queste parole :
Qui giace un cristiano
e non sappiamo il suo nome
ma Dio lo sa
perchè è scritto nel libro dei Beati".
Era per Giacomone una sorta di canonizzazione anomala senza dubbio, ma è lecito pensare che sia stata valida e preziosa come quelle che di solito si fanno nella basilica di San Pietro in Vaticano.