lunedì 9 novembre 2009

Da "DON CAMILLO
IL VANGELO DEI SEMPLICI"
a cura di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
àncora editrice 1999
Giovannino Guareschi : GIACOMONE
riletto da
Giacomo BIffi
dal Vangelo di Marco (15, 21)
Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce.
GIACOMONE
Il vecchio Giacomone aveva bottega nella città bassa. Una stanzaccia con un banco da falegname, una stufetta di ghisa e una cassa.
Dentro la cassa, Giacomone teneva un materasso di crine che, la sera, cavava fuori e distendeva sul banco : e lì dormiva.
Anche il mangiare non era un problema serio per Giacomone, perchè con un pezzo di pane e una crosta di formaggio tirava avanti una giornata : il problema era il bere.
Giacomone, infatti, aveva uno stomaco di quel tipo che usava tempo addietro : quando, cioè, c'era gente che riusciva a trovare dentro una pinta di vino il nutrimento necessario per vivere sani e svelti come un pesce. Forse perchè, allora, non avevano ancora inventato le calorie, le proteine, le vitamine e le altre porcherie che complicano la vita d'oggi giorno.
Giacomone, quindi, finiva sbronzo la sua giornata : d'estate dormiva sulla prima panchina che gli capitava davanti. D'inverno, dormiva sul banco. E, siccome il banco era lungo ma stretto e alto, Giacomone, agitandosi, correva il rischio di cascare per terra : allora, prima di chiudere gli occhi, si avvolgeva nel tabarro serrandone i lembi fra le ganasce della morsa. Così poteva rigirarsi senza il pericolo di sbattere la zucca contro i ciottoli del pavimento.
Giacomone accettava soltanto lavori di concetto : riparazioni di sedie, di cornici, di bigonci e roba del genere. La falegnameria pesante non l'interessava. E, per falegnameria pesante, egli intendeva ogni lavoro che implicasse l'uso della pialla, dello scalpello, della sega. Egli ammetteva soltanto l'uso della colla, della carta vetrata, del martello e del cacciavite. Anche perchè non possedeva altri strumenti.
Giacomone, però, trattava anche il ramo commerciale e, quando qualcuno voleva sbarazzarsi di qualche vecchio mobile, lo mandava a chiamare. Ma si trattava sempre di bagattelle da quattro soldi e c'era poco da stare allegri.
Un affare eccezionale gli capitò fra le mani quando morì la vecchia che abitava al primo piano della casa dirimpetto alla sua bottega. Aveva la casa zeppa di roba tenuta bene e toccò ogni cosa a un nipote che, prima ancora di entrare nella casa, si preoccupò di sapere dove avrebbe potuto vendere tutto e subito.
Giacomone si incaricò della faccenda e in una settimana riuscì a collocare la mercanzia. Alla fine, rimase nell'appartamento soltanto un gran Crocifisso di quasi un metro e mezzo con un Cristo di legno scolpito.
"E quello?" domandò l'erede a Giacomone indicandogli il Crocifisso.
"Credevo che lo teneste" rispose Giacomone.
"Non saprei dove metterlo" spiegò l'erede. "Vedete di darlo via. Pare molto antico. C'è il caso che sia una cosa di valore".
Giacomone aveva visto ben pochi Crocifissi in vita sua : comunque era pronto a giurare che, quello, era il più brutto Crocifisso dell'universo. Si caricò il crocione in spalla e andò in giro ma nessuno lo voleva.
Tentò il giorno dopo e fu la stessa cosa. Allora arrivò fino a casa dell'erede e gli disse che se voleva vendere il Crocifisso si arrangiasse lui.
"Tenetevelo" rispose l'erede. "Io non voglio più saperne niente. Se vi va di regalarlo regalatelo. Se riuscirete a smerciarlo, meglio per voi : soldi vostri".
Giacomone si tenne il Crocifisso in bottega e, il primo giorno che si trovò senza soldi, se lo caricò in spalla e andò in giro a offrirlo.
Girò fino a tardi e, prima di tornare in bottega, entrò nell'osteria del Moro. Appoggiò il Crocifisso al muro e, sedutosi a un tavolo, comandò un mezzo di vino rosso.
"Giacomone" gli rispose l'oste "dovete già pagarmi dodici mezzi. Pagate i dodici e poi vi porto il vino".
"Domani pago tutto" spiegò Giacomone. "Sono in parola con una signora di Borgo delle Colonne. E' un Cristo antico, roba artistica, e saranno soldi grossi".
L'oste guardò il Cristo e si grattò perplesso la zucca : "Io non me ne intendo" borbottò "ma ho l'idea che un Cristo più brutto di quello lì non ci sia in tutto l'universo".
"La roba antica più è brutta e più è bella" rispose Giacomone. "Voi guardate le sculture e le pitture del Battistero e poi ditemi se sono più belle di questo Cristo".
L'oste portò il vino, e poi ne portò ancora perchè Giacomone aveva una tale fame che avrebbe bevuto una damigiana di barbera.
L'osteria si riempì di gente e il povero Cristo sentì discorsi da far venire i capelli ricci a un brigadiere dei carabinieri pettinato "all'umberta".
A mezzanotte Giacomone tornò in bottega col suo Cristo in spalla e, siccome due o tre volte si trovò a un pelo dal cadere lungo disteso perchè quel peso lo sbilanciava, tirò fuori di sotto il vino che aveva nello stomaco delle bestemmie lunghe come racconti.
La storia del Cristo si ripetè i giorni seguenti : e ogni sera Giacomone faceva tappa a un'osteria diversa e passò tutte le osterie dove era conosciuto.
Così continuò fino a quando, una notte, la pattuglia agguantò Giacomone che, col Cristo in spalla, navigava verso casa rotolando come una nave sbattuta dalla burrasca.
Portarono Giacomone in guardina e il Cristo, appoggiato a un muro della stanza del corpo di guardia, ebbe agio di ascoltare le spiritose storie che rallegravano di solito i questurini di servizio notturno.
La mattina Giacomone fu portato davanti al commissario che gli disse subito che non facesse lo spiritoso e spiegasse dove avesse rubato quel Crocifisso.
"Me l'hanno dato da vendere" affermò Giacomone e diede il nome e l'indirizzo del nipote della vecchia signora morta.
Lo rimisero in camera di sicurezza e, verso sera, lo tirarono fuori un'altra volta.
"Il Crocifisso è vostro" gli disse il commissario "e va bene. Però questo schifo deve finire. Quando andate all'osteria, lasciate a casa il Cristo. La prima volta che vi pesco ancora vi sbatto dentro".
Fu, quella, una triste sera per il Cristo : perchè Giacomone se la prese con Lui e gli disse roba da chiodi.
Si ubriacò senza Cristo ma, alle tre del mattino, si alzò, si caricò il Cristo in spalla e, raggiunta per vicoletti oscuri la periferia, si diede alla campagna.
"Vedrai se questa volta non riesco a rifilarTi a qualche disgraziato di villano o di parroco!" disse Giacomone al Cristo.
Era autunno e incominciava a far fresco, la mattina : Giacomone s'era buttato addosso il tabarro e così, col grande Crocifisso in spalla e il passo affaticato, aveva l'aria di uno che viene da molto lontano.
All'alba, passò davanti a una casa isolata : una vecchia era nell'orto e, vedendo Giacomone con la croce in spalla, si segnò.
"Pellegrino!" disse la vecchia. "Volete una scodella di latte caldo?".
Giacomone si fermò.
"Andate a Roma?" s'informò la vecchia.
Giacomone fece segno di sì con la testa.
"Da dove venite?"
"Friuli" rispose Giacomone.
La vecchia allargò le braccia in atto di sgomento e gli ripetè che entrasse a bagnarsi le labbra con qualcosa.
Giacomone entrò. Il latte, a guardarlo, gli faceva nausea : poi lo assaggiò ed era buono. Mangiò mezza micca di pane fresco e continuò la sua strada.
Schivò le strade provinciali; prese scorciatoie attraverso i campi e battè le case isolate.
"Passo di qui perchè la strada è piena di sassi e di polvere e ho i piedi che mi sanguinano e gli occhi che mi piangono" spiegava Giacomone quando traversava qualche aia. "E poi ho fatto il voto così. Vado a Roma in pellegrinaggio. Vengo dal Friuli".
Una scodella di vino e un pezzo di pane non glieli negava nessuno. Giacomone metteva il pane in saccoccia, beveva il vino e riprendeva la sua strada. Di notte smaltiva la sua sbronza sotto qualche capanna, in mezzo ai campi.
In seguito era diventato più furbo : s'era procurato una specie di grossa borraccia da due litri. Non beveva il vino quando glielo davano, lo versava dentro la borraccia : "Mi servirà stanotte se ho freddo o mi viene la debolezza" spiegava.
Poi, appena arrivato fuori tiro, si attaccava al collo della borraccia e pompava. Però faceva le cose per bene in modo da trovarsi la sera con la borraccia piena. Allora, quando si era procurato il ricovero, scolava la borraccia e perfezionava la sbornia.
Il freddo incominciò a farsi sentire, ma, quando Giacomone aveva fatto il pieno, era come se avesse un termosifone acceso dentro la pancia.
E via col suo povero Cristo in spalla.
"Vado a Roma, vengo dal Friuli", spiegava Giacomone.
E quando era sborniato e traballava, la gente diceva : "Poveretto, com'è stanco!"
E poi gli era cresciuta la barba e pareva un romito davvero.
Giacomone, che aveva la testa sulle spalle, aveva fatto in modo di gironzolare tutt'attorno alla città : ma l'uomo propone e il vino dispone. Così andò a finire che perdette la bussola e si trovò, un bel giorno, a camminare su una strada che non finiva mai di andare in su.
Voleva tornare indietro e rimanere al piano : poi pensò che gli conveniva approfittare di quelle giornate ancora di bel tempo per passare il monte. Di là avrebbe trovato il mare e, al mare, freddo che sia, fa sempre caldo.
Camminò passando da una sbronza all'altra, sempre evitando la strada perchè aveva paura di imbattersi nei carabinieri : prendeva i sentieri e questo gli permetteva di battere le case isolate.
L'ultima sbronza fu straordinaria perchè capitò in una casa dove si faceva un banchetto di nozze e lo rimpinzarono di mangiare e di vino fino agli occhi.
Oramai era quasi arrivato al passo. La notte dormì in una baita e, la mattina dopo, si svegliò tardi, verso il mezzogiorno : affacciatosi alla porta della baracca si trovò in mezzo a un deserto bianco con mezza gamba di neve. E continuava a nevicare.
"Se mi fermo qui rimango bloccato e crepo di fame o di freddo" pensò Giacomone e, caricatosi il Cristo in spalla, si mise in cammino.
Secondo i suoi conti, dopo un'ora avrebbe dovuto arrivare a un certo paese. Aveva ancora la testa annebbiata per il gran vino bevuto il giorno prima, e poi la neve fa perdere l'orizzonte.
Si trovò, sul tardo pomeriggio, sperduto fra la neve. E continuava a nevicare.
Si fermò al riparo di un grosso sasso. La sbornia gli era passata completamente. Non aveva mai avuto il cervello così pulito.
Si guardò attorno e non c'era che neve, e neve veniva giù dal cielo. Guardò il Cristo appoggiato alla roccia.
"In che pasticcio Vi ho messo, Gesù" disse. "E siete tutto nudo..."
Giacomone spazzò via col fazzoletto la neve che si era appiccicata sul Crocifisso. Poi si cavò il tabarro e, con esso, coperse il Cristo.
Il giorno dopo trovarono Giacomone che dormiva il suo eterno sonno, rannicchiato ai piedi del Cristo.
E la gente non capiva come mai Giacomone si fosse tolto il tabarro per coprire il Cristo.
Il vecchio prete del paese rimase a lungo a guardare quella strana faccenda. Poi fece seppellire Giacomone nel piccolo cimitero del paesino e fece incidere sulla pietra queste parole :
Qui giace un cristiano
e non sappiamo il suo nome
ma Dio lo sa
perchè è scritto nel libro dei Beati.
INSOLITA CANONIZZAZIONE
Di Giacomo Biffi
La scrittura di Guareschi - anzi sarebbe forse più pertinente dire il suo "discorrere" - più che a scegliere le parole con arte o a enunciare in modo rigoroso dei concetti, mira ad arrivare direttamente alle cose. Certo le parole, senza essere mai ricercate, sono sempre splendidamente efficaci e proprie; i concetti, offerti senza inutili compiacimenti, sono tutti limpidi e giusti. Ma ciò che si vuol raggiungere non è tanto un'ammirevole esposizione di idee nè una qualche originale virtuosità terminologica, quanto una "comunione con le cose".
Forse nasce da qui il caso insolito e curioso di un autore che sa conquistare la simpatia e l'apprezzamento di milioni di uomini di ogni ceto sociale e di ogni latitudine, ma ha sempre faticato a farsi prendere sul serio dagli "addetti ai lavori" letterari.
Guareschi ama, ricerca e in ogni pagina insegue ciò che è "reale". E questa, a ben riflettere, è la ragione della sua oggettiva, intrinseca e quasi involontaria religiosità : perchè - non dobbiamo mai dimenticarlo nonostante l'allergia della cultura dominante - tra tutti i "reali" il più "reale" è Dio. E non solo Dio, ma anche Cristo nel quale - ci rivela San Paolo - "tutte le cose sussistono" (Col 1, 17).
Così capita di scoprire in questi racconti folgorazioni teologiche degne dei più profondi pensatori cristiani.
Per esempio, alla lettura del difficile e tormentato rapporto di Giacomone con il grande Crocifisso che gli è venuto inopinatamente a incombere sugli omeri e sulla vita, viene in mente quel che dice sant'Ambrogio a proposito del Cireneo, il quale, senza averlo minimamente previsto e senza averlo affatto voluto, è entrato da protagonista indimenticabile - lui fino ad allora sconosciuto e del tutto disinteressato - nel dramma più decisivo della storia..........
"Il Vincitore innalzi ormai il suo trionfo! Sulle sue spalle viene imposta la croce come un trionfo, e - l'abbia portata Simone o l'abbia portata lui stesso - è sempre Cristo che porta la croce nell'uomo e l'uomo nel Cristo".
Anche Giacomone porta a spasso il suo molesto fardello, cercando di liberarsene. Ma nella verità profonda delle cose proprio questo suo compagno scomodo e opprimente "lo porta" : cioè gli dà la forza di reggerne il peso e di continuare a camminare. Anzi, lo guida e lo spinge su strade inattese, lo assimila progressivamente a sè e lo trasforma - da uomo senza ideali (che non fosse quello di assicurarsi la sua razione quotidiana di vino) - in un pellegrino proteso verso la santa Città degli apostoli.
Un'avventura spirituale come questa è incomprensibile al "mondo", e particolarmente al mondo ufficiale della cultura e del potere. "Questo schifo deve finire" gli dice infatti il commissario, che pure l'aveva riconosciuto non perseguibile.
Invece le vecchine capiscono : sono sostanzialmente della stessa stoffa di Giacomone, semplici come lui.
E non solo capiscono, ma senza volerlo gli rivelano la sua indole più autentica e la sua altissima "vocazione". Sono loro a farsi concrete collaboratrici della grazia nell'operare un prodigio : l'interiore elevazione di questo ubriacone che da sè solo non aveva nè progetti nè speranza.
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"Beati i poveri in ispirito, perchè di essi è il Regno dei cieli" (Mt 5, 3), aveva detto Gesù. Giacomone non poteva nemmeno sospettarlo, ma lui era uno di questi principi ereditari in incognito. Il suo Salvatore però lo sapeva e - per una strada inedita, che non si trova descritta nei trattati teologici - va a raggiungerlo dove egli si trova e piano piano lo conduce al vertice della gioia e della gloria.
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All'inizio il Cristo - "il più brutto Crocifisso dell'universo" - è per lui solo un oggetto indesiderato e ingombrante, da vendere il più in fretta possibile a finanziamento di qualche bevuta. Poi adagio adagio diventa "qualcuno"; diventa una persona concreta e viva con cui si può anche litigare. "Giacomone se la prese con lui e gli disse roba da chiodi". E' la libertà di parlare e di insolentirsi che c'è tra gli amici sicuri.
Come? Il Figlio di Dio amico e quasi complice di un "beone"?
I ben pensanti si stupiscono; ma perchè non si ricordano più che anche il Figlio di Dio ha accettato di essere messo tra coloro cui piace più il vino dell'acqua : "Ecco un mangione e un beone" (Mt 11, 19), dicevano ai suoi tempi di lui.
Alla fine Cristo non è più solo un amico. E' un fratello da aiutare, da difendere, da amare :
"Giacomone spazzò via col fazzoletto la neve che si era appiccicata sul Crocifisso. Poi si cavò il tabarro e, con esso, coperse il Cristo"
Giacomone arriva così ai vertici della santità ed è ormai pronto per entrare nel Regno, secondo la promessa di colui che davvero non manca mai di parola :
"Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perchè...............ero nudo e mi avete vestito (mt 25, 34.36).
L'ortodossia di Guareschi è ineccepibile : non si dimentica neppure del necessario intervento della Chiesa nelle peripezie dello spirito umano. E' il cattolicesimo che egli attinge con naturalezza dalla storia e dalla cultura antica del nostro popolo, dal quale è sempre stato ben attento a non estraniarsi.
Non basta la "gente" a cogliere in modo esauriente il senso della misteriosa vicenda di Giacomone : "La gente non capiva come mai Giacomone si fosse tolto il tabarro per coprire il Cristo".
Ci vuole il giudizio della Chiesa, rappresentata al livello più vicino e diretto che è quello parrocchiale : "Il vecchio prete del paese rimase a lungo a guardare quella strana faccenda. Poi fece seppellire Giacomone nel piccolo cimitero del paesino e fece incidere sulla pietra queste parole :
Qui giace un cristiano
e non sappiamo il suo nome
ma Dio lo sa
perchè è scritto nel libro dei Beati".
Era per Giacomone una sorta di canonizzazione anomala senza dubbio, ma è lecito pensare che sia stata valida e preziosa come quelle che di solito si fanno nella basilica di San Pietro in Vaticano.

sabato 17 ottobre 2009

ottimo editoriale di avvenire del 17 ottobre 2009

peccato non si dica che anche l'italia finirebbe così con la sinistra al governo!!!

CUPO TRAMONTO DI ZAPATERO

AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

LA SPAGNA È STANCA

LUIGI GENINAZZI

L’ ultima radicale riforma di José Luis Zapatero, il premier socialista spa­gnolo deciso ad abbattere in un sol col­po principi etici e senso comune, po­trebbe avere come titolo quello dei fa­mosi aforismi di Nietzsche. Nella sua dis­sennata corsa a trasformare la Spagna nella società più permissiva d’Europa è ormai giunto «al di là del Bene e del Ma­le ». Il disegno di legge sull’interruzione volontaria della gravidanza che l’esecu­tivo di Madrid intende sottoporre al Par­lamento non solo introduce la depena­lizzazione totale dell’aborto nei primi tre mesi di gravidanza ma ne estende «il di­ritto » anche alle minorenni di 16 e 17 an­ni, senza il consenso dei genitori. «Un’au­tentica barbarie». Così l’ha definita non un reazionario di destra, ma una fem­minista storica come la scrittrice catala­na Angela Vallvey che denuncia un’ope­razione ideologica a danno delle ragaz­ze, sospinte a fare da sé invece che a tro­vare sostegno nella realtà familiare.Con Zapatero siamo ben oltre l’idea, i­stillata nella mentalità comune, secon­do cui l’aborto sa­rebbe « un male necessario » o « un male minore » ( i­dea ambigua che però evita di defi­nire buona una pratica che si vuo­le comunque giu­stificare). Il suo progetto di legge, a ben vedere, più che alla depenaliz­zazione mira alla banalizzazione dell’aborto. Non solo non è un cri­mine, ma non è neppure un dramma, u­na scelta difficile e dolorosa. No, è un’a­zione neutra, senza alcun connotato e­tico, che, in quanto tale, può e dev’esse­re fruibile da parte di tutti. Anche delle minorenni.Non bastavano il matrimonio omoses­suale, il divorzio-express, l’autorizzazio­ne alla ricerca sulle staminali embriona­li e alla clonazione terapeutica, infine la legge organica sull’educazione che im­pone l’insegnamento nelle scuole del re­lativismo etico e della teoria del 'gene­re', tutti provvedimenti varati in questi sei anni dal premier spagnolo in nome di «un progresso irrefrenabile» (sono paro­le sue). Ci voleva anche l’aborto facile. Così Zapatero compie un altro passo ver­so il baratro del nichilismo eretto a pro­gramma di governo. Eppure, alle elezio­ni del marzo 2008, aveva solennemente promesso che non avrebbe cambiato la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza. Ma la sua incoerenza è pari all’arroganza con cui affronta il netto ca­lo di popolarità. La luna di miele fra Zapatero ed i suoi connazionali è finita già da parecchio tempo. Ma negli ultimi mesi il premier è in caduta libera nei sondaggi, due spa­gnoli su tre dichiarano di nutrire 'poca o nessuna fiducia' nella sua capacità di sollevare il Paese dalla grave crisi eco­nomica e perfino il quotidiano un tem­po fiancheggiatore El País non gli ri­sparmia le critiche più aspre. E lui, in mezzo a tanti problemi, non sa far altro che sventolare la bandiera del laicismo e del permissivismo.Oggi saranno in tanti a gridare il loro no. A Madrid sono attese centinaia di mi­gliaia di persone che scenderanno in piazza per una grande manifestazione contro i progetti abortisti del governo. L’ha organizzata una galassia di associa­zioni della società civile, di credenti e di non credenti, anche se qualcuno insiste nel vederci soprattutto un tentativo di ri­scossa dei cattolici. Ma qui c’è in gioco ben di più di un contrasto fra Stato e Chiesa. Un Paese dove una sedicenne potrà tranquillamente abortire senza neppure farlo sapere ai genitori è un in­cubo per tutti. Perfino per qualche de­putato socialista che alla prossima se­duta delle Cortes potrebbe votare contro l’ultra-abortista Zapatero.

sabato 10 ottobre 2009

CHI E' VERAMENTE OBAMA
E CHE COSA RAPPRESENTA ORMAI IL PREMIO NOBEL ?

Obama campione di relativismo

Una brillante oratoria non riesce a nascondere le intenzioni del Presidente abortista
di Renzo Puccetti*

ROMA, lunedì, 1° giugno 2009 (ZENIT.org).

Discorso tenuto il 17 maggio all’università cattolica di Notre Dame, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in giurisprudenza, contestato da 80 Vescovi americani e con la Ann Mary Glendon che ha rifiutato una onorificenza, con abilità oratoria universalmente riconosciutagli, Barak Obama ha invitato gli ascoltatori ad aprire le loro menti ed i loro cuori.

Da consumato oratore nei palchi politici il presidente Obama ha attratto l’attenzione del pubblico proprio là dove voleva che essa andasse: la forma[1].
In un involucro di buona volontà, di apertura al dialogo, di desiderio di attenzione per il destino delle persone, il contenuto del messaggio, un perfetto relativismo, è stato una volta di più confezionato come suprema fonte a cui attingere.
Viene da chiedersi: “possiamo bere questa pozione?”. La mia risposta è: “No”. No, perché essa non apre né il cuore né la mente, ma al contrario la chiude.
Il confronto non è evocato nell’intento di scoprire la verità; nelle parole del presidente Obama, alla fine ciò che va coltivato non è la ricerca ed il rispetto della verità, ma il dubbio. Non un dubbio socratico che spinge alla ricerca, ma quel dubbio pilatesco, ideologicamente chiuso alla stessa esistenza della verità.
Mentre aspettiamo di ascoltare lo stesso invito al dubbio quando egli si rivolgerà ai sostenitori della libera scelta, il signor Obama trasforma il suo dubbio in certezza quando afferma che la scelta di sopprimere un essere umano vivente colpevole solo della propria dipendenza è un fatto di libertà.
Vi è in questo atteggiamento una potente affermazione di certezza: il valore dell’essere umano, quando si trova allo stato di sviluppo embrionale e fetale, non è fondato nella sua natura, nella sua irripetibile dignità, ma è attribuito. Così facendo egli si dimostra discepolo dello stesso pensiero subito per secoli nella propria carne da milioni di esseri umani di colore, particolarmente nel paese di cui Obama è presidente.
Paradossalmente il campione politico del pensiero debole dimostra la vera natura dell’atteggiamento che lo ispira: un fondamentalismo relativista. Dall’altra parte stanno coloro che, seppure dipinti come integralisti, esercitano il vero pensiero del dubbio, che non esclude alcuna possibilità, compresa quella che il concepito sia una persona, dotata di diritti inalienabili per il suo essere persona e non per quello che riesce a fare, o per quanto riesce a farsi apprezzare.
Il presidente Obama non chiede ai pro-life di convertirsi alla causa abortista, ma di convertirsi all’integralismo relativista, consentendo che in una tale materia ciascuno abbia libertà di pensare ed agire come vuole.
È un’argomentazione coincidente con quella che il giudice Stephen Douglas rivolse ad Abraham Lincoln nei celebri 7 dibattiti nell’Illinois in vista delle elezioni per il congresso: la sovranità popolare democraticamente espressa deve essere rispettata.
Se i cittadini di un stato vogliono la schiavitù, diceva allora Douglas, non si vede perché essa non dovrebbe essere legalizzata; se i cittadini vogliono l’aborto, dice oggi Obama, questa è una scelta che dovete rispettare[2].
Il presidente Obama parla come se il suo primo atto significativo, il ripristino dei fondi federali a favore delle lobbies abortiste, il cui obiettivo è proprio quello d’introdurre l’aborto nei paesi dove esso è illegale e molte volte incostituzionale, fosse operazione dettata da sublime neutralità e non invece una continua opera volta ad abbattere i valori e i costumi di una comunità per sostituirli con quelli del grande circolo relativista mondiale.
“Aprite la mente”, ha detto dal palco della Notre Dame mr. Obama. Sì, signor presidente è necessario che le menti si aprano, a partire dalla sua. La ricetta che il grande affabulatore propina condendola con la sua proverbiale salsa mielata non è poi così diversa da quella già enunciata dalla femminista Hillary Rodham Clinton, rendere l’aborto “safe, legal and rare”[3] attraverso servizi di salute riproduttiva più accessibili; in pratica la solita minestra riscaldata fatta di più contraccezione, più pillole del giorno dopo e aborto facilitato.
Anche in Italia si è cercato di emulare questa ricetta, provvidenzialmente senza riuscirci[4]. Difficile intravedere in tale progetto rilevanti aperture mentali, quanto meno nei confronti di quegli ingombranti testimoni della verità che sono i fatti. È un fatto che le politiche di facilitazione dei servizi abortivi incrementino il ricorso all’aborto[5].
È un fatto che la necessità del consenso dei genitori riduca il numero di aborti tra le minori[6]. È un fatto che minori costi per abortire ne incrementano la diffusione[7]. Sono fatti noti alla comunità scientifica che leggi più permissive nei confronti dell’aborto, maggiori finanziamenti pubblici all’aborto, maggiore disponibilità di cliniche abortive favoriscono direttamente l’incremento del tasso di abortività[8].
È ancora un fatto che nel mondo occidentale non si riduce l’aborto inondando le donne con i contraccettivi [9,10,11]. È una volta di più un fatto che in Spagna, nonostante la copertura contraccettiva sia aumentata del 40%, il tasso di abortività sia aumentato del 60% in soli 6 anni[12].
È un fatto che le stesse agenzie che tentano di esportare a livello planetario il diritto all’aborto non possono smentire che nei paesi dove l’aborto è illegale esso è meno frequente[13]. Sono i numeri che dimostrano per l’aborto: “if legal, less rare”[14].
Se la legalizzazione dell’aborto non causasse un incremento del numero degli aborti l’approccio proporzionalista al problema riceverebbe un indubbio supporto, aprendo la strada alla legalizzazione dell’aborto come scelta di un male minore.
La strategia proporzionalista si regge solamente dimostrando che la legalizzazione riduce la pericolosità dell’aborto senza aumentarne il numero. Ma perché in Etiopia il numero dei casi fatali per aborto è aumentato dopo la legalizzazione?[15]
Perché in un paese dove l’aborto è consentito soltanto in caso di pericolo di vita della madre come l’Irlanda la mortalità materna è 8 volte inferiore rispetto alla vicina Inghilterra, dove invece è possibile su semplice richiesta?[16] Perché nella Cuba che dell’assistenza sanitaria e del diritto all’aborto “safe and legal” fa un vanto la mortalità materna è più che doppia rispetto all’Uruguay? E perché le donne che abortiscono hanno una mortalità ad un anno tripla rispetto a quelle che danno alla luce un figlio?[17]
Dove sono i benefici dell’aborto legale, quando tutti gli indicatori di salute conducono a evidenziarne il ruolo di trattamento futile per la madre e mortifero per il figlio? La verità scientifica ha ormai portato ad una mole estremamente solida di evidenze che fanno a pezzi l’approccio utilitaristico all’aborto.
Il presidente Obama, caricandosi del compito di rappresentare il pensiero pro-choice in un ateneo che della cultura dovrebbe avere somma cura, ha reso un pessimo servizio a quanti caparbiamente hanno voluto non ripensare alla scelta di conferirgli una laurea ad honorem. Forte con i deboli, debole con i forti, mr. Obama alla fine ha potuto portare alla Notre Dame University soltanto “junk science” e “junk ethics”.
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*Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e Segretario dell’associazione “Scienza & Vita” di Pisa e Livorno
1) http://www.dailykos.com/storyonly/2009/5/17/732527/-President-Obamas-Notre-Dame-Speech.
2) Miranda G. Aborto: la vera «questione morale del nostro tempo». Acta Bioethica 2008; 1: 79-82.
3) Remarks by Senator Hillary Rodham Clinton to the NYS Family Planning Providers. January 24, 2005.
4) Schema d'Intesa Stato-Regioni per una migliore applicazione della legge 194. http://www.ministerosalute.it/dettaglio/phPrimoPianoNew.jsp?id=33
5) Finer LB, Henshaw SK. Abortion incidence and services in the Unites States in 2000. Perspectives on Sexual and Reproductive Health. 2003; 35: 6-15.
6) Joyce T, Kaestner R, Colman S. Changes in abortions and births and the Texas parental notification law. N Engl J Med. 2006; 354: 1031-8.
7) Gohmann SF, Ohsfeldt RL. Effects of price and availability on abortion demand. Contemp Policy Issues. 1993; 11: 42-55.
8) Gober P. The role of access in explaining state abortion rates. Soc Sci Med. 1997; 44: 1003-16.
9) Puccetti R. Does contraception prevent abortion? An empirical analysis. Studia Bioethica, 2008; 1: 133-41.
10) Imamura M et al. Factors associated with teenage pregnancy in the European union countries: a systematic review. Hum Repr. 2007; 17: 630-6.
11) Kirby D. The impact of programs to increase contraceptive use among adult women: a review of experimental and quasi-experimental studies. Perspect Sex Reprod Health. 2008; 40: 34-41.
12) Lete I, et al. Contraceptive practices and trends in Spain: 1997-2003. Eur J Obstet Gynecol Reprod Biol. 2007; 135: 73-5.
13) Sedgh G, Henshaw S, Singh S, Ahman E, Shah IH. Induced abortion: estimated rates and trends worldwide. Lancet. 2007; 370: 1338-45.
14) Puccetti R. Abortion incidence in Peru: if legal less rare. CMAJ. 17 Feb 2009. [letter].
15) Gebrehiwot Y, Liabsuetrakul T. Trends of abortion complications in a transition of abortion law revisions in Ethiopia. J Public Health (Oxf). 2009; 31: 81-7.
16) Maternal Mortality in 2005. Estimates developed by WHO, UNICEF, UNFPA, and The World Bank.
17) Gissler M, Berg C, Bouvier-Colle MH, Buekens P. Pregnancy-associated mortality after birth, spontaneous abortion, or induced abortion in Finland 1987-2000. Am J Obstet Gynecol, 2004, 190:422-7.


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mercoledì 7 ottobre 2009

Addio a Obama l'idealista

di Fausto Carioti

La leggenda metropolitana più in voga negli ultimi tempi è stata quella di Barack Obama presidente dai grandi ideali. Da contrapporre al suo predecessore, il bovaro texano George W. Bush, che faceva le guerre per arricchire la Hulliburton, la Exxon e le altre grandi compagnie americane. Ecco, dopo nemmeno nove mesi dal suo insediamento, Obama il grande idealista non c’è più. Svanito. I pochi che ancora non ne hanno preso atto sono pregati di fare i conti con la realtà, sporca e cattiva come sempre: ieri la Casa Bianca ha fatto sapere che il Dalai Lama, appena arrivato a Washington, non sarà ricevuto dal presidente. Né in forma privata, tantomeno in veste ufficiale. Obama gli ha sbattuto la porta in faccia. Il 74enne leader religioso del Tibet, premio Nobel per la pace, sarà carino e simpatico quanto vuoi, ma è inavvicinabile perché su di lui pesa il veto del regime di Pechino. E poi non ha nemmeno il dono dell’opportunità: il presidente statunitense tra un mese sarà in visita in Cina, e non è il caso di guastare sin d’ora il grande evento. La causa tibetana può attendere.Chi accredita il Dalai Lama come interlocutore politico, infatti, entra automaticamente nella lista nera di Hu Jintao, presidente della Repubblica popolare cinese. Jintao è il leader di un Paese in cui i diritti umani semplicemente non esistono, tanto che chiunque può essere incarcerato senza processo. Sotto il controllo militare del regime di Pechino gli abitanti della regione autonoma del Tibet - quelli che non stati rinchiusi in carcere - sono chiamati a seguire corsi di «educazione patriottica», dove ai partecipanti è chiesto di firmare denunce scritte contro il Dalai Lama. Ma soprattutto Jintao è il leader della nuova grande potenza economica e politica mondiale. Gli investitori cinesi controllano titoli del Tesoro americano per oltre 800 miliardi di dollari, pari a un quarto del debito pubblico statunitense collocato all’estero. Questo basta a far passare in secondo piano tutto il resto. Un portavoce di Jintao, il mese scorso, aveva lanciato l’avvertimento: il governo di Pechino «si oppone» a un incontro tra Obama e il Dalai Lama. Ricevuto il messaggio, il presidente americano si è adeguato.È un modo di fare che qui in Italia conosciamo bene. Silvio Berlusconi, nei periodi in cui è stato presidente del Consiglio, ha ricevuto il Dalai Lama solo nel 1994, e l’incontro è avvenuto sotto forma di semplice visita privata. Nel 2003 e nel 2009 la guida spirituale del Tibet buddista è tornata in Italia, ma non è riuscita a incontrare il Cavaliere. Un diniego bipartisan: disgustando i suoi alleati del partito radicale, Romano Prodi nel dicembre del 2007 spiegò con la ragion di Stato il suo rifiuto a ricevere l’ingombrante ospite: «Bisogna usare prudenza. Ho la responsabilità di un Paese e devo rendermi conto delle conseguenze finali delle mie azioni».Ora, che a fare simili ragionamenti siano i politici di casa nostra, peraltro imitati dalla gran parte dei loro colleghi internazionali, non stupisce nessuno. Ma diventa una signora notizia quando a certe vecchie ipocrisie ricorre il leader della superpotenza americana, nonché alfiere del «mondo nuovo» in cui gli ideali di Libertà e Giustizia avrebbero dovuto rimpiazzare i compromessi al ribasso sulla pelle degli oppressi. Concita De Gregorio, direttrice dell’Unità, ha presentato Obama ai suoi lettori come il presidente che «con tranquilla disinvoltura scardina il vecchio mondo». Vittorio Zucconi, su Repubblica, ha fatto credere a qualcuno che Obama avrebbe offerto alla comunità internazionale un «nuovo inizio». Come no.Meglio di tutti, come sempre in questi casi, è riuscito a fare Furio Colombo, in un articolo per l’Unità: «Obama ha rovesciato la frase “purtroppo la politica ci costringe a…” in “per fortuna la politica ci chiede di…”. Il patto con l’America è anche un patto con il mondo. E questo è il senso magico dell’attesa», scriveva Colombo commuovendo i suoi lettori. I quali, però, adesso dovrebbero essere svegliati dall’estasi mistica e informati, con il dovuto tatto, che Colombo non ci aveva capito nulla, e che Obama ha appena detto che “purtroppo la politica” lo costringe a non incontrare il Dalai Lama. Il «Mondo nuovo» esisteva solo nelle favole con cui i compagni italiani cercavano di evadere dalla onnipresenza berlusconiana.«Cosa deve pensare un monaco o una suora buddista rinchiuso in prigione nell’apprendere che Obama non riceve il leader spirituale tibetano?» si è chiesto a Washington il deputato repubblicano Frank Wolf. Domanda retorica, la risposta già si sa: deve pensare che a Obama non importa nulla. A proposito: l’unico presidente statunitense che ha ricevuto il Dalai Lama, sfidando le ire del regime cinese (e fregandosene), è stato George W. Bush. Quello stupido e senza ideali.

lunedì 22 giugno 2009

Da "DON CAMILLO
IL VANGELO DEI SEMPLICI"
a cura di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
àncora editrice 1999



GIOVANNINO GUARESCHI

ALL' "ANONIMA"

riletto da Giacomo Biffi

DAL VANGELO DI MATTEO (5, 37) Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.


ALL' "ANONIMA"

Fioccava che Dio la mandava, ma lo Smilzo, piuttosto di usare l'ombrello, simbolo della reazione borghese e clericale, si sarebbe fatto scannare. D'altra parte, se si fosse messo il cappello, come sarebbe entrato? Tenendoselo in testa o cavandoselo? "Entrare in casa di un nemico del popolo tenendo il cappello in testa è, sì, un atto fiero, adeguato alla dignità del popolo : però è provocatorio. Entrare in casa di un nemico del popolo togliendosi il cappello non è un atto provocatorio, però è servile e umiliante : quindi dannoso alla causa del popolo. L'unico modo per conservare la propria dignità senza, per questo, assumere atteggiamenti provocatori è quello di andare in casa dei nemici del popolo senza mettersi il cappello. Si serve la causa del popolo anche prendendo un raffreddore. Ogni azione rivoluzionaria comporta dei sacrifici". Così pensò lo Smilzo e perciò, quando entrò in canonica, era fiero senza essere provocatorio : però aveva la testa piena di neve.

"Ciao, Gennaio" gli disse don Camillo. "Nevica anche sul partito?" "Può darsi" rispose con voce ferma lo Smilzo. "Però presto verrà il sole anche per il Partito". "C'è scritto sul Solitario Piacentino?" si informò don Camillo. Lo Smilzo assunse un'aria notevolmente annoiata. "Dice il capo che, se nel Piano Marshall non esiste nessuna clausola in contrario, vorrebbe parlarvi". "Bene" rispose don Camillo. "Digli pure che io non ho cambiato casa : abito sempre qui". Lo Smilzo ebbe un risolino, di quelli tutti da una parte e col singhiozzino sotterraneo. "Fin che dura!...A ogni modo, siccome si tratta di cose strettamente personali e siccome voi non volete andare da lui, mentre la sua dignità non gli permette di venire qui a riverirvi, il capo ha organizzato un incontro in campo neutro. Vi aspetta all' "Anonima" ".

L' "Anonima" era un gran baraccone fuori dal paese : un tempo era stato una fabbrica di salsa di pomodoro. Roba impiantata nel 1908 e che aveva funzionato per una decina d'anni. E siccome sul frontale c'era scritto "Società Anonima Conserve Alimentari" la gente trovò che l' "Anonima" rendeva l'idea meglio di tutto il resto e con tal nome battezzò la baracca. Ora la fabbrica, abbandonata da anni e annorum, funzionava semplicemente da ricordo di giovinezza per i più vecchi e da "centrale giochi" per i più giovani.

Don Camillo infilò gli stivaloni e andò a pestar neve e lo Smilzo lo seguì, ma, duecento metri prima di arrivare, si fermò e tornò indietro. "Così nero in mezzo alla neve fate un bell'effetto" osservò lo Smilzo quando fu lontano una ventina di metri. "Stareste proprio bene in Siberia. Vi terremo presente reverendo". "Tu invece staresti bene all'Inferno" borbottò don Camillo.

Peppone era ad aspettarlo sotto una tettoia e aveva acceso un bel fuoco e si stava scaldando, seduto su una cassa sgangherata. Don Camillo spinse col piede una cassa vicino al fuoco e si mise a sedere di fronte a Peppone. Rimasero lì un bel po' ad arrostirsi le mani in silenzio. Poi Peppone levò la testa e disse con voce aggressiva : "Qui bisogna venire a una conclusione. E' una storia che non può funzionare". "Quale storia?" si informò don Camillo. "E quale deve essere? Quella della Messa!" spiegò sgarbato Peppone. "Ecco : i compagni hanno apprezzato molto il vostro gesto della Vigilia di Natale. Il fatto del clero che esce dal suo isolamento e va a bussare alla porta del popolo ha un valore. Sta a significare che Dio capisce finalmente l'importanza del popolo e allora va lui a cercare il popolo. Dio fa un'autocritica, riconosce le sue deviazioni ideologiche e il popolo allora apre la porta a Dio e gli perdona. Dio insomma diventa veramente democratico : non più il popolo che deve andare alla Casa di Dio, ma Dio che va alla Casa del Popolo".

Don Camillo tirò su uno stecco dal fuoco e si accese il sigaro. "Siete una manica di porci" disse don Camillo con calma. "Approfittate di uno stupido come il sottoscritto, che in un momento di debolezza ha commesso una fesseria, per gonfiarvi di boria e bestemmiare il nome di Dio". Peppone lo guardò perplesso. "Non avete commesso nessuna fesseria, reverendo. C'è scritto sui vostri libri che il buon pastore lascia il gregge nell'ovile e poi va in giro di notte a cercare la pecorella smarrita". Don Camillo scosse il capo. "Sì, ma non c'è scritto che poi la pecorella, per ricompensarlo, gli dice le eresie che hai detto tu. Voi non siete delle pecorelle : siete una mandria di bufali. Io non sono venuto a dire la Messa alla vostra Casa del Popolo perchè c'era il Padreterno che vi cercava. Io sono venuto per aiutare voi a cercare Dio, per aiutarvi a ritrovarlo. Dio non ha bisogno di voi, siete voi che avete bisogno di Dio". "Io non avevo intenzione di offendervi" obiettò Peppone. "E neanche mi hai offeso" replicò duramente don Camillo. "Però hai fatto ben di peggio : hai offeso Dio!". Peppone fece un gesto d'impazienza. "Reverendo" esclamò "non ricominciamo la solita storia di buttare in politica tutto! Lasciamo stare la tattica del vittimismo! Non facciamo ragionamenti abulici!".

Don Camillo guardò preoccupato Peppone. "Cosa intendi per "ragionamenti abulici"?" domandò. Peppone si strinse nelle spalle. "Cosa intendo per ragionamenti abulici? E cosa volete che voglia dire? Ragionamenti abulici! Ragionamenti così, insomma!" concluse agitando le braccia. Don Camillo scosse il capo. "Se intendi dire una cosa di quel genere, allora "abulico" è un aggettivo che non va bene. "Abulico" significa..." Peppone fece un'alzata di spalle e lo interruppe : "Reverendo, l'importante è che ci si capisca! Non è il caso di fare delle discussioni di letteratura. Tanto, la letteratura è una porca faccenda che serve soltanto per imbrogliare le idee, perchè va a finire che uno, invece di dire quello che vorrebbe dire lui, dice quello che vuole la grammatica e l'analisi logica. E, a un bel momento, non ci capisce più dentro niente neanche quello che parla. Se io, porcaccio mondo, nei comizi potessi fare dei discorsi in dialetto, me la sbrigherei in metà tempo e difficilmente direi delle stupidaggini. Perchè, quando uno fa un discorso, prima di tutto bisogna che capisca lui quello che dice. Se io parlo come mi ha fatto mia madre capisco tutto quello che dico. Perchè, caro reverendo, mia madre mi ha fatto in dialetto, mica in italiano. Ma così, vigliacco mondo, va a finire che, dopo aver fatto un discorso, uno deve farsi spiegare da un altro quello che ha detto!".

"Adesso parli giusto" osservò don Camillo. "Lo so. E tutti parlerebero giusto se non ci fosse questa porca letteratura che complica sempre di più le cose. Perchè, se ci sono cento cose, ci devono essere duemila modi per dire queste cento cose? Ci sono i nomi scientifici, e va bene : quelli servono per gli specializzati. Ma gli altri debbono usare soltanto le parole che capiscono. Si fa un comitato di galantuomini di tutte le categorie, si piglia il vocabolario, si cancellano tutte le parole inutili e se uno, dopo, usa in pubblico qualcuna di queste parole proibite lo si prende e lo si schiaffa dentro come quelli che tentano di spacciare moneta falsa. I signori poeti si lamenteranno perchè non trovano più la rima? Noi gli risponderemo che facciano le poesie senza rima. Un povero diavolo ha almeno il diritto di sapere quello che dice. Perchè io ho parlato poco fa di discorsi abulici? Perchè io, questa sporcaccionata di parola, l'ho letta o sentita da qualche parte e, siccome si presenta bene, mi è piaciuta e mi è rimasta appiccicata al cervello". "Capisco, ma perchè l'hai usata se non la conoscevi che di vista?" "Non l'ho usata io! E' stata lei che ha usato me! Io volevo dirvi : "Non diciamo delle vaccate, reverendo!", e mi pareva, così, dall'aspetto, che "abulico" significasse sempre roba bovina ma detta in modo più pulito, più distinto. Più letterario insomma!".

Peppone era triste e sospirò : "Forse era giusto se dicevo "discorsi bucolici" invece che "discorsi abulici" ". Don Camillo scosse il capo : "In "bucolico" il bestiame c'entra molto di più che in "abulico". Però, nel senso di "discorsi a vacca" o "vaccate", il "bucolico" non funziona. Dai retta a me : anche quando parli nei comizi devi dire soltanto le parole che sai". "Il guaio è che ne so poche". "Anche se tu ne sapessi metà, basterebbero. Ha bisogno di molte parole chi deve mascherare la sua mancanza di idee o chi deve mascherare le sue intenzioni. Credi tu che Gesù Cristo adoperasse più parole di quante ne puoi adoperare tu? Eppure riusciva a farsi capire da tutti e abbastanza bene, mi pare".

Peppone si strinse nelle spalle e sospirò : "Altri tempi, reverendo. Altro tipo di propaganda!". Allora don Camillo cavò dal fuoco un mezzo travicello infuocato e lo brandì minaccioso. "O la pianti di bestemmiare, o ti vernicio a fuoco il muso. Se mi hai fatto venir qui per sentire le tue bestemmie, hai sbagliato indirizzo. Si può sapere una buona volta che cosa vuoi da me?". Peppone esitò un poco poi si rinfrancò : "Reverendo, qui bisogna sistemare la faccenda : quello che è detto è detto e poi ci sono delle ragioni speciali e indietro non si torna. Noi in chiesa non ci possiamo venire più. D'altra parte siamo gente battezzata. Quindi..." "Quindi?" "Ieri sera abbiamo fatto una seduta straordinaria. Non ne mancava neanche uno e abbiamo deciso di proporvi la carica di cappellano della sezione".

"Cioè?" "Cioè voi, la domenica, dovreste venire a fare una Messa speciale per noi. Diciamo una Messa di Partito".

Don Camillo lo guardò. "Io non faccio il barbiere" rispose. "Sono i barbieri che fanno il servizio a domicilio. Alla vostra Casa del Popolo io non ci metterò più piede vita natural durante".

"Non alla Casa del Popolo. Non si potrebbe neanche perchè ci sarebbero delle interferenze politiche. Voi verreste qui : sotto quelle tre tettoie ci stiamo tutti. Qui siamo in campo neutrale : la distanza da qui alla Casa del Popolo è uguale alla distanza da qui alla chiesa. Dio è dappertutto e quindi Lui resta dov'è e nessuno gli dà dei fastidi : ci muoviamo noi e ci incontriamo a metà strada. Gli uomini si muovono e il Padreterno sta fermo. Insomma : se la montagna non vuole andare a Maometto e Maometto non vuole andare alla montagna, Maometto e la montagna vanno tutt'e due all' "Anonima" e buonanotte suonatori".

Don Camillo si alzò. "Ci penserò" disse andandosene.

Peppone rimase solo vicino al fuoco che ardeva sotto la tettoia della vecchia fabbrica abbandonata. "Se il Padreterno non è un fazioso" pensò " deve capire che queste storie non le facciamo per lui". Poi pensò alla faccenda dell' "abulico" e sospirò. "Peccato dover rinunciare a una così bella parola. Quella, per esempio, la si potrebbe mantenere nell'elenco delle parole permesse".




PEPPONE IL TEOLOGO
di Giacomo Biffi



L'epopea di Mondo piccolo - un piccolo mondo che ci viene offerto primariamente come cifra e quasi miniatura del più grande conflitto di idee, di mentalità, di interessi che ha segnato e dominato gran parte del secolo XX, ma poi diventa anche raffigurazione sorridente dell'intera commedia esistenziale - trova qui uno dei suoi più affascinanti capitoli.
Ma a lettura finita c'è spazio, voglia e, si direbbe, necessità di qualche considerazione approfondita. Lo consente e quasi lo esige lo spessore di questa prosa; uno spessore che la levità della narrazione non riesce a celare, se non forse ai fruitori più disattenti.

In questo racconto viene affrontato esplicitamente il problema - serio e rilevante per Guareschi - del rapporto tra il servizio alla verità e la tirannia delle esigenze letterarie.

Peppone l'avverte come qualcosa di intrigante e addirittura di angoscioso. "La letteratura (egli dice) è una porca faccenda che serve soltanto per imbrogliare le idee, perchè va a finire che uno, invece di dire quello che vorrebbe lui, dice quello che vuole la grammatica e l'analisi logica"

"Adesso parli giusto" osservò don Camillo (che qui è senza dubbio portavoce dell'autore).

"Ha bisogno di molte parole (dice più avanti don Camillo) chi deve mascherare la sua mancanza di idee o chi deve mascherare le sue intenzioni".

La proposta di Peppone è di cancellare dal vocabolario tutte le parole che sono in più : ce ne sono troppe rispetto al numero delle cose da dire. Al momento egli non ci pensa, ma in fondo il suo è lo stesso parere di Gesù Cristo che ha detto :"Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5, 37).

Bisogna riconoscere che dal tempo di Guareschi nell'uso del linguaggio c'è stato perfino un peggioramento. Sicchè oggi l'inizio obbligato della nostra redenzione sociale sarebbe quello di cominciare a chiamare le cose soltanto con il loro nome, senza camuffamenti e senza quelle inutili prolissità che spesso finiscono coll'essere messe a servizio dell'ambiguità e della confusione.

E' per esempio strano (ma non tanto) che la famosa legge 194 - con la quale si è legalizzato e pubblicamente finanziato l'aborto - si intitoli con bella ipocrisia Legge per la tutela della maternità o che ci si dimentichi che, per indicare la convivenza more uxorio di due persone non sposate, la lingua italiana abbia già la parola "concubinato", senza che ci sia bisogno di perifrasi come "unioni di fatto" o "unioni affettive".

"Se io parlo come mi ha fatto mia madre capisco tutto quello che dico" esclama nostalgicamente lo schietto capopopolo emiliano, che si vede invece costretto a misurarsi e a compromettersi con termini che gli sono estranei e incomprensibili, per nobilitare letterariamente il suo dire. E deve essere per lui un disagio non piccolo il dover ascoltare e ripetere nell'indottrinamento di partito vocaboli come "alienazione", "plusvalore", "materialismo dialettico", in omaggio a Carlo Marx.
"Credi tu che Gesù Cristo adoperasse più parole di quante ne puoi adoperare tu?" gli fa notare l'implacabile curato. Peppone tenta di schermirsi :"Altri tempi, altro tipo di propaganda"; ma in realtà sa anche lui che qui don Camillo ci ha preso. Perchè la lamentela gli viene proprio dal ricordo dello stile usato dal Figlio di Dio, il quale sapeva introdurre nel suo dire le cose più semplici e comuni, e così gli riusciva di far capire le grandi e ineffabili verità del Padre che ci ama e del Regno che ci aspetta anche al suo pubblico di pescatori, di pastori, di contadini.
Un'attenzione a parte merita la "teologia di Peppone". Essa suscita le ovvie critiche del suo antagonista, che in seminario aveva studiato sui testi classici e approvati; eppure io vorrei tentare di difenderla.
Certo, dire che "Dio fa autocritica, riconosce le sue deviazioni (...) e diventa veramente democratico" a prima vista scandalizza e fa gridare alla bestemmia. Ma questo linguaggio racchiude qualche valore, che cercherò di mettere in luce facendo ricorso a una "autorità" di tutto rispetto.
Il cardinal Newman distingue - ed è uno dei più originali dei suoi non sempre facili pensieri - l' "assenso nozionale" dall' "assenso reale": il primo termina ai concetti e non li oltrepassa, il secondo arriva alla realtà (e qualifica il vero atto di fede). Se io mi limito ad asserire che Dio è l'essere perfettissimo, l'eterno, il santo, l'onnisciente, eccetera, mi esprimo in maniera ineccepibile; ma il mio rischia di essere solo un "assenso nozionale", e non è detto che sia salvifico. Peppone invece, a ben guardare, parla di Dio come parla dei compagni coi quali ha quotidianamente a che fare; vale a dire, prende sul serio Dio come una persona viva e concreta. Il suo è un "assenso reale", e può essere l'avvio di una relazione religiosa trasformante.
E si capisce allora come egli possa chiedere a questo Dio - proprio come lo chiederebbe a un suo conoscente o a un suo amico - di favorire l'incontro delle parti, collocandosi tra loro (topograficamente, senza compromettere nessuna verità) a mezza strada. Così - rileva il teologo Peppone - "gli uomini si muovono e il Padreterno sta fermo".
Non bisogna dimenticare che si tratta soltanto di una bega tra la parrocchia e la sezione del partito. Però vi è sottintesa una questione annosa e addirittura secolare, che affligge molti italiani : la questione di mettere d'accordo il loro antico cuore cattolico (che sa di aver bisogno non solo della predicazione del Vangelo, ma anche dei sacramenti e degli altri riti) e il loro antico animo anticlericale (per il quale sono convinti che ai preti non bisogna mai darla vinta del tutto).
Perciò si può sperare che in questo caso Dio non si rifiuti equanimemente di dare una mano. "Se il Padreterno non è fazioso" pensa Peppone utilizzando ancora una volta l' "assenso reale" "deve capire che queste storie non le facciamo per lui".
Vorrei aggiungere un'ultima riflessione sul "dialogo" : un tema vivissimo in questi decenni, tanto che sembra essere percepito dall'odierna cristianità quasi come un dogma di fede.
Ma non è un dogma di fede. Piuttosto è una ovvietà : è evidente che bisogna dialogare sempre con tutti, se si vuole evangelizzare efficacemente.
Quelli di Guareschi sono senza dubbio personaggi "preconciliari", ma nessuno potrebbe affermare che non ci sia dialogo fra don Camillo e Peppone. Il dialogo è anzi la sostanza stessa della loro leggendaria vicenda. Ogni giorno essi si incontrano, si confrontano, misurano con straordinaria libertà di spirito le loro rispettive convinzioni.
Ma don Camillo - che non solo è un irriducibile annunciatore del Vangelo ma anche un leale e appassionato rappresentante della Chiesa - non si sogna neppure di pensare che per dialogare efficacemente bisogna, come oggi si sente dire, "guardare a ciò che ci unisce e non a ciò che ci divide". Egli sembra ben persuaso che sia vero il contrario, almeno quando quello che ci differenzia e ci contrappone non è motivato e connotato dal capriccio e dal puntiglio, ma dall'amore per la verità e la giustizia. Diversamente, non ci sarebbe più nemmeno dialogo autentico e pastoralmente proficuo; ci sarebbe solo una cortese chiacchiera da salotto.
Appunto per questo il dialogo come è tratteggiato da Guareschi appare evangelicamente giusto e fruttuoso. La salvezza dei fratelli non verrà dalla capacità degli uomini di Chiesa di schivare con mondana eleganza ciò che può inquietare e pungere una pace delle coscienze obiettivamente infondata e non generata dalla verità; potrà venire solo da una limpida e coraggiosa testimonianza resa, per amore del prossimo, alla luce di Dio.




giovedì 18 giugno 2009

E' un'alleanza immorale

Mons. Negri boccia l’accordo dell’UDC con la sinistra di Claudio Monti,da “La Voce di Romagna” (16/06/09)Gli apparentamenti dell’UDC col centrosinistra il quotidiano della CEI Avvenire li definisce “eclatanti”. Fra quelli “destinati a lasciare il segno oltre i livelli locali”, dopo il comune di Bari e la provincia di Torino, il quotidiano cattolico ha citato “la provincia di Rieti e quella di Rimini”. In Vaticano e nella Conferenza Episcopale Italiana non è passata inosservata la decisione dello scudo crociato di andare in soccorso delle alleanze a guida PD in alcune città dove si gioca una partita storica per cambiare equilibri ed egemonie che fanno capo alla sinistra. Il ribaltone “pro Vitali” targato Casini-Errani non è passato inosservato nemmeno nel mondo cattolico riminese e nella vicina Repubblica di San Marino, dove Casini e alcuni dei suoi uomini più rappresentativi a livello nazionale hanno frequentazioni assidue e amichevoli. Due soprattutto – Rocco Buttiglione, presidente dell’UDC, e l’onorevole Luca Volonté – hanno parecchie amicizie in zona, dal Meeting alla Fondazione Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa, e in particolare con mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino e Montefeltro.“Non nascondo un certo disagio per le parole di Casini in tema di apparentamenti al secondo turno elettorale. Credo che anche le situazioni particolari debbano essere viste in un’ottica generale e alla luce dei principi fondativi che ispirano l’azione di una forza politica. Non mi pare né sincera né profonda la giustificazione che scelte come le alleanze per i ballottaggi vengano lasciate alle responsabilità locali”, spiega il vescovo di San Marino (nella foto). “Nessuno che viva in queste zone può non rendersi conto dell’importante momento che una provincia come Rimini ha davanti a sé, e per i cattolici si tratta della possibilità di incidere in una realtà che da 60 anni vede una gestione monocratica del potere. E men che meno non possono non comprenderlo i dirigenti nazionali. Affrontare una scadenza come questa, che ha certamente uno spessore nazionale, nell’ottica dei piccoli accordi locali, che rispondono a logiche non certo di principio, mi sembra una cosa avvilente”, aggiunge mons. Negri. Che spiega di avere a cuore la scadenza elettorale della Provincia di Rimini, un territorio che “a breve si arricchirà degli abitanti dei comuni dell’Alta Valmarecchia, verso i quali è viva e forte la mia sollecitudine pastorale di vescovo. Seguo con interesse e partecipazione il fatto che la provincia di Rimini si arricchisca di uomini e donne che provengono dalla mia Diocesi e che portano con loro un complesso di valori e di problemi che attendono risposte, e che personalmente ho sempre indicato come motivazioni che rendevano ragionevole pensare ad un cambio di provincia”.Mons. Negri ricorda quanto ha scritto a fine maggio nel messaggio in occasione delle elezioni amministrative e di quelle europee: “I problemi reali devono essere illuminati dai principi, non i principi essere di fatto estromessi dal ‘piccolo cabotaggio’ istituzionale ed amministrativo”. Negri aveva pure detto senza mezzi termini che “debbono essere privilegiate formazioni socio-politiche e singoli candidati che garantiscano una fedeltà viva ed operativa ai principi fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa”. Ora il vescovo di San Marino aggiunge: “L’UDC ha lodevolmente impostato la sua campagna elettorale per le elezioni europee sui grandi principi che riguardano la persona, la famiglia, il diritto all’educazione e la difesa della vita, portando il dibattito politico a un livello superiore a quello di altri partiti. Mi chiedo come l’UDC potrà, alla luce di questi principi, condividere tutti i giorni le amministrazioni locali con chi manifesta una concezione della vita radicalmente diversa. Il vescovo non può non ricordare a tutti che una gestione senza principi è una gestione immorale”.